«Timone? 9 mesi come un parto» di Osvaldo Guerrieri

Il regista Pagliaro racconta la genesi dello spettacolo che debutta al Carignano Il regista Pagliaro racconta la genesi dello spettacolo che debutta al Carignano «Timone? 9 mesi, come un parto» La tragedia impossibile di Shakespeare tra denaro, narcisismo e misantropia TORINO. «Timone d'Atene»? Ci sono voluti nove mesi per prepararlo, «il tempo di una gravidanza». Il regista Walter Pagliaro sorride. La «tragedia impossibile» di Shakespeare debutterà questa sera al Carignano, tornando a vivere dopo decenni di prudente e forse spaventato silenzio. Torna per un atto di coraggio del Teatro Stabile di Torino e del suo direttore Guido Davico Bonino, che hanno voluto imbarcarsi su questo «unfinished play» con una ciurma quasi tutta di giovani, cercando un approdo magari insospettato, ma forte di tensione polemica. «Timone» è la tragedia del denaro, del narcisismo e della misantropia. E' un'opera che il Teatro ha dimostrato di amare poco, ritenendola disuguale, un po' pasticciata e, in un certo senso, «tirata via». Per qualche tempo ha creduto di non doverla neppure attribuire a Shakespeare. Ora, rifatti i conti, il «play» appare in una luce diversa: opera di frontiera, si dice, messa come labile separazione tra la prima e la seconda fase drammaturgica di Shakespeare; e tragedia del disincanto e del pessimismo. Nel 1606 Shakespeare fantasticava su Atene, in realtà descriveva le vie della City gremite di mercanti e di usurai. Era così poderoso il suo grido contro il potere corruttore del denaro, che fu raccolto perfino da Karl Marx e infilato di peso in una pagina del «Capitale». Timone è un nobile ateniese prodigo, altruista, che si circonda di parassiti e adulatori. La vita scorre scintillante per lui, finché il castaido Flavio non gli rivela che le sue finanze sono allo stremo. Timone chiede soccorso a chi aveva colmato di doni, ma nessuno risponde all'appello. Offeso, abbandona Atene maledicendo tutti, rifugiandosi in una landa desolata, dove si nutre di radici. Una volta, raschiando la terra, trova una vena d'oro, che usa affinché l'umanità corra sempre più verso il baratro, lo dà alle prostitute, ai ladri, al generale Alcibiade che con i suoi soldati combatte contro Atene... Sceglie di morire in solitudine, lontano da coloro che avrebbero voluto richiamarlo, colmarlo di onori per contrapporlo ad Alcibiade. Dunque, Pagliaro, perché nove mesi? «Per capire da quale porta entrare». Quale porta ha trovato? «Quella del teatro, che è l'apparenza, l'apparire, cioè il carattere fondamentale di Timone». Quindi tutto avverrà in una cornice teatrale. «All'incirca. Ho pensato che si dovesse ricostruire lo spaccato di un teatro antico non completo, non definitivo. Poiché la vita di Timone ò una specie di sogno, il sogno dell'età periclea, quando, nel giro di pochi anni, nacque tutto: l'arte, la filosofia, il teatro; quando si creò un nuovo, meraviglioso equilibrio tra potere e suddito. Nei momenti di crisi (al tempo di Shakespeare come oggi) si sognano sempre? i giorni che si ritengono più belli. Timone si illude di poter ricostruire quell'epoca». Invece succede il contrario. «Timone è come un signore feudale, vive in un'armonia fittizia. Arriva al punto di farsi prestare il denaro per fare doni agli amici: quindi anche il dono è contaminato». La cornice teatrale vale an¬ che per la seconda parte, quella dell'esilio? «Neanche li abbiamo cancellato del tutto i segni del teatro, poiché la rabbia e la solitudine sono ancora un errore di Timone, che continua a credersi al centro dell'universo. Timone sostituisce alle necessita dell'essere la voluttà dell'apparire». Nel I960 Timone fu inter- pretato da Salvo Randone. Lei ha voluto invece un protagonista giovane, Massimo Venturiello. Come mai? «Un giovane era indispensabile' per capire il personaggio e i suoi meccanismi mentali. L'errore di Timone è l'errore di un uomo a metà della vita, quindi ancora capace di un possibile riscatto». Che non avviene. Neppure il filosofo Apemanto, presenza fondamentale, riesce a dare ragionevolezza a Timone. «Apemanto è un filosofo cinico, ma capisce che la cosa più importante è vivere. Quando va da Timone in esilio, gli dice: "Vivi, Timone, e goditi la tua miseria". Gli risponde Timone: "E tu vivi a lungo, e goditi la tua". Apemanto è un intellettuale, e l'intellettuale deve essere critico». Il primo critico di un testo teatrale è il regista. «E io sono critico come Apemanlo. Lo so che è impossibile frenare la corsa del denaro, ma su che possiamo ritrovare valori importanti. Non possiamo dire, per esempio: ipotizziamo una società senza tv. Dovremmo però vedere che altrove la tv ha un'importanza relativa e dovremmo chiederci perché la nostra è la peggiore, perché ha cancellato la cultura dai suoi palinsesti». Che dirà lo spettacolo allo spettatore? «Che il potere del denaro è devastante, che tutto ha un prezzo. Spero che lo spettacolo valga co\w presa di coscienza e come scelta di cultura e di impegno civile. Il teatro, in fondo, non deve fare altro». «Timone d'Atene», nella nuova traduzione di Renato Oliva, è interpretato nei ruoli principali da Massimo Venturiello, Paolo Graziosi (Apemanto); Franco Alpestre (Alcibiade) e Antonio Fattorini (Flavio). Le scene sono di Giorgio Ricchelli, i costumi (ottocenteschi) di Elena Mannini. Resterà in scena al Carignano fino al 27 novembre. Osvaldo Guerrieri Walter Pagliaro nelle prove: «La corsa al denaro ce ma possiamo ritrovare i valori importanti»

Luoghi citati: Alcibiade, Atene, Torino