E i giornalisti occupano il santuario di Letizia di Massimo Gramellini

E i giornalisti occupano il santuario di Letizia E i giornalisti occupano il santuario di Letizia LA RABBIA DI SAXA RUBRA CROMA OME in un incubo di Berlusconi, alle quattro i «comunisti» assaltano la Rai. Saranno un centinaio: un'avanguardia di giornalisti - qualche santoriano di complemento, Enrico Ghezzi di «Blob», la mascotte Carmen Lasorella nelle retrovie - e una maggioranza livida di operai e impiegati, lo sguardo senza rimorsi di chi sta per essere comunque licenziato. Avanzano senza resistenze fino al settimo piano di viale Mazzini, il santuario della signora Moratti e dei suoi boys. Travolgono una manciata di poliziotti pigri e forse compiacenti, sciamano nei corridoi moquettati del potere, battendo le mani per farsi coraggio, come un manipolo di ultra. Arrivati al soglio supremo, il portone ovattato del presidente, vacillano alla Fantozzi («a guardare per la prima volta quel posto misterioso ci ha preso il panico», ammetteranno poi), ma è solo un attimo, prima della carica finale. Comir'.iano a prendere a pugni il velluto delle pareti, a fischiare, a ritmare cori: «Dimis-sio-ni», «Ber-lu-sco-ni», «Ta-ta-rel-la». E battono i piedi: persino Stefano Balassone, il vice di Guglielmi a Raitre, che a vederlo sembra così educato; persino Giorgio Balzoni, il sindacalista che quando gli pestano un mocassino dice «scusa». Cosa avrà mai scatenato l'ira di questi uomini miti? L'antefatto ci porta ai cancelli di viale Mazzini, dove alle tre del pomeriggio una desolata Lilli Gruber accoglie i rappresentanti della stampa, accorsi in massa (c'è pure un olandese) per raccontare gli «stati generali» della Rai, una maxi-assemblea in sala-mensa contro l'ultima scorpacciata di nomine aziendali. Gruber è fu¬ rente: «I dirigenti non vogliono lasciarvi entrare. A questo punto ci toccherà spostare l'assemblea per strada». Un sit-in di seicento persone all'ora di punta, in una delle strade più trafficate di Roma. Roba da guerra civile. Ad allentare la tensione arriva un camioncino che scarica una corona mortuaria a base di garofani (colta l'allusione?). Scendono due ragazzi dell'Arci, chiedendo di poterla consegnare alla Moratti. Lunghe consultazioni telefoniche fra un commesso e i piani alti: «Spiacente, mi hanno appena comunicato che da oggi è vietato ricevere fiori». Avevamo lasciato gli invasori con i pugni chiusi contro il portone di Moratti. Gli assediati mandano a parlamentare Luigi Mattucci, capo dello staff del direttore generale Gianni Billia. Tiene duro: «L'assemblea è un fatto interno, non potete aprirla alla stampa». Ricominciano i cori, i fischi, i battimani. Fa capolino dalla sua stanza il consigliere Franco Cardini, dotato di un coraggio che rasenta la spavalderia, come vedremo poi, quando irromperà in assemblea. Per ora si limita a un battibecco d'assaggio con le truppe d'occupazione, che lo spernacchiano al grido «di-mis-sio-ni». Una delegazione viene finalmente ricevuta dall'assistente di Moratti, Giuliana Del Bufalo, vecchia volpe sindacale. Si trova il modo di sbrogliare la matassa: poiché l'assemblea si occuperà di fatti pubblici e non interni, il veto non vale più. Moratti, che notoriamente non si parla con Billia, ordina a Del Bufalo di parlargli lei, affinché disponga l'au- torizzazione. Gli ammutinati raggiungono la truppa in salamensa. Si può cominciare. Un caldo, però. C'è Amedeo Goria con la giacca in mano che suda come un vitello. E Lasorella, ancora provata dallo sforzo, si abbandona su una sedia con i piedi fuori dalle scarpe. Il primo a parlare è un sindacalista della Uil che pare Di Vittorio. Urla contro la lottizzazione «che era meglio quella vecchia», contro Moratti «che è una miliardaria», contro Marchini e Cardini «che prima votano con gli altri e poi piangono». Si chiama Flavio Tornei: «Scusate, ma con questi qui è difficile mantenere un atteggiamento anglosassone. E poi, io non sono anglosassone». Non è che dopo di lui si vada giù leggeri: gli altri oratori accusano il neodirettore di Raitre, Luigi Locatelli, di aver preso un miliardo di liquidazione e Giovanni Minoli di fare affari con la società cinematografica del suocero, Ettore Bernabei. Il consigliere Cardini deglutisce amaro sotto il barbone. Si è già capito che la cagnara scoppierà non appena aprirà bocca. «Bene», esordisce, e va già malissimo. «Io ho un mestiere, una cattedra». «Tornaci», ringhia una donna con gli occhi da lupa, in seconda fila. «Io fo quello che mi pare e non mi rompete i 'oglioni», strilla il professore in un toscano di gola. E come il colpo di uno starter: boati, strepiti, muggiti. Gruber, con un sorriso beffardo, guida il coretto da stadio: «Te ne vai o no, te ne vai sì o no?». Cardini prova a resistere: «Io sono venuto in Rai per fare l'organizzatore culturale». Gruber, in piedi: «E chi se ne frega». Nel caos si captano brandelli di prosa cardiniana: «Tre mesi di inferno», «il mio software è la mia faccia», «anche se queste nomine fossero pessime...», «...va bene, sono pessime», «... meglio queste, comunque, che la panne aziendale». Parole che annegano nell'uragano. «Di-mis-sio-ni», gridano tutti e battono furiosamente le mani tranne Lasorella che le batte piano, come fosse all'opera. Cardini lascia il microfono e la mensa con cipiglio fiero, sfogandosi davanti agli ascensori: «No, che non mi dimetto. Tanto ci dimetteranno tutti quanti a dicembre, per mettere un consiglio più docile o direttamente il commissario». Dice che ha ricevuto pressioni da tutti i partiti, però An, pds e popolari lo hanno fatto «con sfumature di maggiore correttezza». Infine promette che chiederà notizie a Moratti sul miliardo di liquidazione a Locatelli. «L'ho appreso oggi. O restituisce l'incentivo o non rientra in Rai». E' l'unico contentino per la piazza: in salamensa Locatelli già lo chiamano «Papa Luciani». Massimo Gramellini Il consigliere Cardini sfida l'assemblea dei dipendenti «Io non mollo, tanto a dicembre ci manderanno tutti a casa» A sinistra la presidente della Rai Letizia Moratti e Lilli Gruber A destra Carmen Lasorella e il direttore generale Gianni Billia

Luoghi citati: Ome, Roma