TESCHI & NIKON SUL MEKONG di Franco Lucentini
TESCHI Se NIKON SUL MEKONG TESCHI Se NIKON SUL MEKONG Arbasino «cavaliere» reporter kong (pp. 112, L. 12.000, Adelphi) va invece letto a nostro avviso in ginocchio per l'ammirazione. Interminabili ore d'aereo, sicure scomodità di alloggio e trasporti, alimentazione dubbia, climi pesanti, guerriglieri nei dintorni, per vedere che cosa? Il viaggiatore si troverà anzitutto di fronte lo scoglio formidabile àeìdéjà vu, dovrà misurarsi con luoghi che hanno fatto sognare lui stesso nelle pagine di Conrad e Maugham, Loti e Malraux, e scivolar via senza una lacrima sull'aura perduta, degradata ieri dalle bombe oggi del turismo. Ci sono poi i massacri, i defolianti, la miseria medievale dei superstiti. E c'è il milione di morti ammazzati dai khmer rossi, ragazzi usciti dalla Sorbona per costruire laggiù una perfetta società agrocomunista. Arbasino è persona altamente sensibile, civile, morale, che prova sdegno, orrore, pietà. Ma la difficoltà somma per uno scrittore è di dare espressione a tali sentimenti senza salire sui pulpiti d'uso e riuso. Per lunghi incisi, in forma sovente interrogativa, sempre in quel tono colloquiale e quasi pettegolo che gli serve da pudica copertura, Arbasino rievoca la folle strage ideologica, il silenzio degli intellettuali di tutto il mondo, gli stessi che poco prima tanto avevano strillato contro l'imperialismo americano, passeggia tra le cellette ancora insanguinate, tra le piramidi di teschi lasciate lì per Kodak e Nikon più come «attrazione» che come tragico monito, e non gli sfuggono i chioschi di Coca-Cola che già spuntano tra le macerie di quella mostruosa cata¬ strofe. Vano e atroce delirio utopistico? Senza dubbio, ma non meno agghiacciante è forse l'avvenire che si profila per queste genti martirizzate: droga di massa, prostituzione di massa, turismo di massa, modello Bangkok. Ovvero un gran ritorno alle stragi locali, tribali, religiose, etniche, modello Jugoslavia, Algeria, Ruanda ecc. Arbasmo ci va con mano leggera, per ipotesi dubbiosamente prospettate a fior di labbro. Ma il suo dovere di osservatore intelligente e senza illusioni lo fa fino in fondo, non si (ci) nasconde una risaia arcaica, una fila di bambine portatrici di pesantissimi secchi, un aratro a chiodo dopo quel profluvio di mezzi corazzati. Non si perde una contraddizione, una pena, una vergogna, un disperante dilemma. Ma che diavolo ci è andato a fare, allora, in quella galera? Il missionario? Niente affatto. Le peripezie del suo viaggio erano in realtà «prove» di lontana origine cavalleresca cui egli ha voluto sottoporsi per guadagnarsi alla fine il Sublime, i favolosi templi sepolti a centinaia nella giungla e che appaiono improvvisi con la misteriosa, prodigiosa imponenza della leggenda e la miracolosa capacità, malgrado tutto, di lasciare a bocca aperta il novello Indiana Jones. I fratelli Goncourt, che pure furono i primi o fra i primi a diffondere in Europa il gusto dell'Estremo Oriente, un'emozione così alta non la provarono mai, con tutta la loro Parigi. Carlo Frutterò Franco Lucentini
Persone citate: Arbasino, Carlo Frutterò, Goncourt, Jones, Loti, Malraux, Maugham
Luoghi citati: Algeria, Bangkok, Estremo Oriente, Europa, Indiana, Jugoslavia, Parigi, Ruanda
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