VAUTRIN, UNA VITA A TINTE FORTI di Giovanni Bogliolo

VAUTRIN, UNA VITA A TINTE FORTI VAUTRIN, UNA VITA A TINTE FORTI Sono entrambi degli pseudonimi. Volontario il secondo, adottato per sottolineare la rigenerazione che Jean Herman, regista di buona fama, assistente di Rossellini e di Rivette e autore in proprio di documentari e di film di discreto successo, si attendeva dalla sua nuova identità di scrittore dopo aver rotto col cinema che, invece di consentirgli di dipingere la vita a tinte forti, gliela faceva «ricalcare sugli stereotipi imbecilli di una tribù dagli occhiali fumé che confondeva lo splendore del sole con l'incandescenza delle lampade ad arco e la nascita del desiderio con una scena in campo controcampo». Necessario il primo, imposto dalle tormentose, inesorabili leggi dell'autobiografia. E di un'autobiografia che vuol essere un «libro di salvataggio», che non si limita a descrivere le tinte forti che ha avuto una vita, ma vuole giustificare, se possibile, lo sforzo profuso per regalarle le più smaglianti e mitigare la disperazione di averle viste di colpo incupirsi e sbiadire al sole nero di Benjamin. Perché possa dire queste cose, perché Herman Vautrin possa arrivare alle verità più cocenti di Herman-Fio¬ TINTE forti, per il protagonista del romanzo, sono quelle che ha la vita quando è piena di sorprese e di avventure e merita la passione, la rabbia, il coraggio, l'ironia che ci vogliono per viverla. Tinte forti, per il suo autore, sono quelle con cui bisogna colorare la vita quando la si vuole inventare o anche soltanto raccontare. Il protagonista si chiama Charlie Fioche, fa lo scrittore e vive con la famiglia in una casa di campagna nella Beauce che, da fuori, sembra un luogo di delizio borghesi. Invece, «appena superate le persiane, entrate in un quadro di Munch» e avvertite l'angoscia che vi diffonde coi suoi gridi inarticolati, le sue sinistre risate, i suoi gesti inconsulti Benjamin, un ragazzo murato nel suo autismo. Quelli che vi abitano cercano, ciascuno a suo modo, di «riempire l'assenza di questo bambino che c'è: Vittoria, la madre, gli consacra la vita, la sorella Marie-Marie si rifugia nei sogni ad occhi aperti e in una esilarante corrispondenza con la zia Zo, il fratello Antoine va via di casa a diciott'anni e il gatto Gobulvic somatizza l'an¬ goscia incombente perdendo il pelo. Quanto a Charlie, il padre, è convinto di essere alla mercé di una spietata banda di gangster di Cleveland, in particolare della sezione Odio della Speranza, e per sfuggirle, quando «soffia il grande chinook della disperazione» e non lo soccorrono né i ricordi del tempo in cui la vita era a tinte forti né il ricorrente, dolciastro incubo della bella e vorace Justina Ostropowitch, si mette a bere come una spugna, si lancia a velocità pazzesca sull'autostrada o, più modestamente, si rifugia in giardino «non lontano da Dio, a destra del susino». L'autore si chiama Jean Vautrin e all'epoca di questo libro (1986; di li a poco sarebbe arrivata la definitiva consacrazione con i racconti di Diciotto tentativi per diventare santo e col romanzo Un gran passo verso il buon Dio, premio Goncourt) si era fatto un nome come autore di romanzi polizieschi della Sèrie Noire [A bulle tins rouges) e poi come narratore Willy ze Kick, Canicule, Bloody Mary, Patchwork, Baby Boom), di quella rara specie che, insieme con le storie, inventa anche il linguaggio per raccontarle. che, c'è bisogno della mediazione di un terzo scrittore - un onnisciente «scrittore di Fioche» - che nel libro tiene i fili del racconto e c'è bisogno del controcanto tenero e giocoso delle lettere di quella sorellina di Zazie che è Marie-Marie. C'è soprattutto bisogno di una grande delicatezza di tocco che, a prima vista, sembrerebbe fuori della portata di uno scrittore come Vautrin, l'esatto contrario della sua prosa aggressiva e pirotecnica, e invece ne è la più genuina risorsa. Dietro alle esplosioni verbali, dietro al troppo pieno dei paradossi, degli accostamenti inattesi, delle espressioni disinibite, delle descrizioni parossistiche c'è, palpabile e struggente, il non detto della tenerezza, dello smarrimento, della sofferenza: un muro di parole a tinte forti per arginare la marea montante dell'angoscia, un rosario di formule incantatorie per spezzarne il maleficio. Giovanni Bogliolo Jean Vautrin Tinte forti trad. di Yasmina Melaouah Feltrinelli, pp. 194. L. 28.000

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