L'ira di Marco tessitore «casinista» di Pierluigi Battista

Lira di Marco, tessitore «casinista» Lira di Marco, tessitore «casinista» Così la Bonino è riuscita a sorpassare Napolitano L' INCUBO DEL PALAZZO AROMA NTONIO Martino, per esempio. Prima era buono - un campione della «rivoluzione liberale» - e lo applaudivano non senza ardore nel buio salone dell'hotel Ergife dove si riuniscono le truppe dei «Club Pannella». Ma ora Marco comunica a quella stessa platea che Martino è diventato nel frattempo una delle tante «ciambelle trasformistiche e italiote» di cui sarebbe zeppo il Paese. E perché poi? Perché non si è battuto con apprezzabile fervore per la candidatura di Emma Bonino come commissario dell'Ue. Una macchia indelebile, considerato l'altissimo valore simbolico che per Pannella assume l'investitura di qualche prestigiosa figura di vocazione «riformatrice» nei luoghi-chiave della visibilità politica. «Cercate di capire, devo accontentare i radicali altrimenti quelli mi fanno casino», avrebbe detfo Berlusconi mentre, con un pizzico di imbarazzo, riponeva nel cassetto la candidatura di Napolitano. Perché, insomma, il «casino» pannelliano è uno degli incubi del Palazzo. Perché quel tenace lavorio ai fianchi, quell'indistruttibile testardaggine, quel tono da crociata con cui Pannella è solito orchestrare le sue campagne a favore di questa u quella candidatura è una delle spine che l'alleato di turno deve sopportare ogni volta che in- tenda stringere la rosa radicale e insieme uno dei segnali che impediscono di svilire l'ostinazione pannelliana a favore del suo «candidato» come uno dei tanti fenomeni di ordinaria lottizzazione. Perché la «candidatura» radicale, nell'universo pannelliano, assume quasi il valore di un tocco mistico, la prova provata se si vuol capire se una politica prende una piega sbagliata o va nella direzione del giusto e del buono. Altro che posti, poltrone, nomine. Pannella voleva il ministero degli Esteri. Berlusconi, che gli vuole bene, non si impuntò a dovere e Pannella ne stava per ricavare la conclusione che con Berlusconi, che pure gli aveva regalato un drappello di deputati, non c'era più niente da fare. Idem con il ministero della Giustizia, richiesto e subito negato, ma che almeno è andato nelle mani di un garantista doc come Biondi. Il quale, tra l'altro, era il candidato di Pannella per la presidenza della Camera. Ma quando nella maggioranza prevalse il nome della Pivetti, furono i «riformatori» ad accendere la miccia delle proteste (subito rilanciate dai progressisti che non avevano ancora beatificato Sant'Irene). Non senza il ricorso a colpi bassi, come quell'accusa di «antisemitismo» rivolta alla giovane leghista che ha lasciato una scia di rancore profondo tra il presidente di Montecitorio e il gruppo pannelliano. Ma così profondo che l'ostacolo più impervio lungo il percorso di metamorfosi di Radio Radicale in Radio Parlamento (con un cospicuo mucchietto di miliardi come contrassegno dell'avvenuta trasfigurazione) pare proprio rappresentato da Irene Pivetti. E chi sgambettò la maggioranza quando all'ultimo venne bruciata la candidatura di Sergio Stanzani alla presidenza della Commissione Lavori Pubblici del Senato se non quelli della Lega? Bossi, sempre lui, l'anti-Pannella per eccellenza (che tra l'altro prima firma per i referendum e poi ne disconosce la paternità). Bossi che si irrita quando Pannella viene ammesso nei vertici di maggioranza. Bossi che si oppone alla candidatura di Marco per la Farnesina. Bossi che non muove un dito a suo favore, quando alla Commissione Esteri della Camera alla Bonino viene preferito Mirko Tremaglia. Bossi che detesta Marco Taradash e che ha inghiottito con malcelato dispetto la presidenza del Marco 2 dei radicali alla presidenza della Commissione di vigilanza della Rai. La Rai, croce e delizia della lunga marcia pannelliana. Strappare un minuto di «verità negata» sugli schermi televisivi, scombussolare anche solo per un attimo quell'occupazione dei partiti dell'informazione Rai scandita con l'orologio di regime tante volte dissezionato dal radicale centro di ascolto di Valeria Ferro: ecco la matrice originaria della caparbietà con cui Pannella monta su i più defatiganti (per gli altri) «casini» paventati da Berlusconi nel casso fosse saltata la candidatura pannelliana. La candidatura come strumento di visibilità, come arma suprema nella guerra di posizione da affrontare senza esclusioni di colpi. Oggi per esempio all'Ergife Pannella dice che con l'affaire Napolitano si stava per ripetere «ciò che fece Craxi quando nominò Ripa di Meana al mio posto». E così rievoca il macigno che si mise di traverso sulla grande alleanza del 20 per cento che Pannella (col supporto di Martelli) voleva costruire nella seconda metà degli anni Ottanta «assieme a Bettino». Tutto finì lì. E qualche anno più tardi finirà pure l'effimero feeling che Pannella intreccerà con Occhetto all'indomani della svolta della Bolognina, destinazione «partito democratico». E finirà pure con Ciampi, dopo che l'appoggio promesso da Pannella al nuovo presidente del Consiglio venuto da Bankitalia si risolverà soltanto con un sottosegretariato agli Esteri proposto a Emma Bonino. Era l'epoca del Pannella grande tessitore, uno dei pochi dotati di talento politico e di esperienza in senso lato manovriera sopravvissuti al ciclone di Tangentopoli. Pannella era riuscito con un magi¬ strale uno-due a imporre il «suo» candidato Oscar Luigi Scalfaro prima a Montecitorio e poi al Quirinale. E per un pelo non fu raggiunto l'obiettivo massimo con la candidatura di Stefano Rodotà come successore di Scalfaro alla presidenza della Camera. Ora è tutto più difficile e i nuovi arrivati che tengono a freno la generosità filoradicale di Berlusconi appaiono determinati, agguerriti e un tantino ingordi. Ma in questo quadro più accidentato, Pannella non cessa di invocare un «Berlusconibis»: che poi altro non sarebbe che un governo Berlusconi potenziato e sublimato dalla presenza più consistente di qualche riformatore nella compagine ministeriale. Pannella attende, ma ogni tanto lo abbandona la pazienza e attraverso le agenzie manda qualche appello-ultimatum al presidente del Consiglio per segnalargli che tra i «riformatori» la guardia è stanca e che non è detto che non ci si possa dire addio. E così con frequenza regolare Berlusconi si reca nell'arena dell'Ergife per sottomettersi al rito di purificazione. Ma sapendo che prima o poi occorrerà attendersi la sfuriata pannelliana. Il «casino» che si sarebbe scatenato se non fosse passata la candidatura Bonino. Altro che il britannico fair-play invocato dall'improwisamente mite Giuliano Ferrara. Pierluigi Battista Anche Berlusconi ha dovuto piegarsi e accontentare i «terribili» radicali Il «colpo da maestro»: imporre Scalfaro prima alla presidenza di Montecitorio e poi al Quirinale In alto: Marco Pannella Qui accanto: il Presidente Oscar Luigi Scalfaro e Giorgio Napolitano