La vernina d'essere italiani di Umberto Eco

La vernina d'essere italiani Un fenomeno nuovo e virulento, figlio della sconfìtta di 50 anni fa e della menzogna con cui è stata rimossa La vernina d'essere italiani w t| NA frase di Umberto Eco a |, Buenos Aires nello scorso III giugno («In questo momenI I to mi sento anti-italiano. V | Voglio farmi cittadino di Sarajevo») ha suscitato un «dibattito», vale a dire la solita tempesta in un bicchier d'acqua. Intervistate dai giornalisti, le grandi ombre della letteratura italiana hanno ripetuto le loro classiche invettive: «Ahi serva Italia, di dolore ostello... Come cadesti e quando da tanta altezza in così basso loco... 0 d'ogni visio fetida sentina... vecchia, otiosa, lenta...». Abbiamo letto per qualche giorno una crestomazia delle ingiurie e dei vituperi che gli italiani hanno indirizzato a se stessi, da Dante a Flaiano, da Leopardi a Zeri, da Pascoli a Biagi. E ne abbiamo tutti concluso che nelle parole di Eco non c'è nulla di nuovo sotto il sole, che gli italiani hanno sempre detestato se stessi, che non v'è altro popolo in cui l'«odio di sé» sia radicato e diffuso sino al punto di diventare gioco, vezzo, insopprimibile meccanismo mentale e verbale. Presso gli italiani, quindi, l'autodenigrazione e l'autolesionismo non sarebbero occasionali manifestazioni di rabbia civile. Sarebbero l'espressione di un disprezzo profondo che ogni italiano tiene chiuso in se stesso, sul fondo della propria coscienza. Qualcuno lo ostenta, altri lo nascondono con pudore, altri ancora se ne liberano con l'ironia o con il sarcasmo. Ma tutti hanno lo stesso virus e sanno di averlo. Abbiamo approvato o disapprovato le parole di Eco perché si riferivano a una questione - l'esito delle ultime elezioni e la formazione di un governo di destra - su cui siamo divisi. Se le elezioni fossero state vinte dai progressisti e un Eco di destra avesse dichiarato «voglio farmi cittadino svizzero», i campi si sarebbero rovesciati. Ma non vi è italiano che non tenga chiuso in petto, per i giorni dell'ira, un moto di collera contro la razza dannata a cui è stato assegnato nel giorno in cui Dio ha creato i popoli e le nazioni. Se non c'è nulla di nuovo sotto il sole non mette conto parlarne. I sentimenti immutabili e indistruttibili si sottraggono alle analisi, diventano tare morali e psicologiche che la Provvidenza storica ha iscritto nel codice genetico di un popolo. Potremmo chiudere l'episodio, depositarlo nel grande libro dell'aneddotica nazionale, aspettare che un altro intellettuale cancelli il ricordo della battuta di Eco dicendo parole ancora più caustiche. Ma commetteremmo l'errore di confondere due sentimenti diversi. Il primo, quello dell'aulodenigrazione corrente e banale appartiene alla tradizione culturale dei popoli latini, è una sorta di «mugugno» terapeutico che rinvia a vecchie condizioni storiche e può rapidamente trasformarsi in orgoglio o superbia, come è accaduto altre volte nella storia del Paese. Il secondo è un sentimento più recente, più profondo e più «serio». Non è vero che «non c'è nulla di nuovo sotto il sole». Di nuovo da cinquantanni a questa parte c'è una mancanza di «rispetto per sé» che gli italiani non avevano mai sperimentato con tale virulenza dal momento della creazione dello Stato nazionale. All'origine, naturalmente, vi è la sconfitta. Perdere una guerra, se il conflitto non si conclude con la morte dello Stato, non è la fine del mondo. E' capitato ai russi nel 1855 e nel 1905, agli austriaci nel 1859 e nel 1866, ai danesi nel 1864, ai francesi nel 1870 e nel 1940, agli spagnoli nel 1898, ai tedeschi nel 1918 e nel 1945. Maggioranza alla finestra Ma una guerra perduta esige una grande terapia nazionale. Occorre, se possibile, volere fermamente e tenacemente la rivalsa. (...) Ma vi sono circostanze in cui questa è impossibile o inopportuna. Occorre allora esaminare attentamente le cause della guerra e della sconfitta, fare un processo al Paese e se necessario a se stessi. (...) In Italia, dopo la II guerra mondiale, non vi sono stati né desiderio di rivalsa né processo alla nazione. Dopo la caduta del fascismo e l'armistizio la grande maggioranza del Paese si è ritirata neH'«attendismo» e si è limitata a guardare dalla finestra il resto del dramma misurando diplomaticamente e prudentemen¬ te il proprio consenso alle forze in campo. Dopo la sconfitta della Germania e del suo satellite fascista ha stretto un patto con l'antifascismo trionfante i cui termini, grosso modo, erano questi. Avrebbe permesso alla nomenklatura antifascista di governarla purché essa non le chiedesse conto di ciò che aveva fatto nei vent'anni precedenti. Il patto conveniva a entrambi: all'antifascismo perché nessuno in tal modo lo avrebbe messo a confronto con le proprie responsabilità fra il 1919 e il 1922, al Paese perché nessuno gli avrebbe contestato l'entusiastica adesione al fascismo. Gli uomini politici antifascisti potevano proclamare d'essere stati ingiustamente e violentemente espropriati del potere, gli italiani potevano sostenere d'essere stati oppressi e asserviti da una dittatura aliena. Era una menzogna, naturalmente, ma presentava molti vantaggi, fra cui quello di permettere all'Italia di finire la guerra nel campo dei vincitori. Gli alleati dovettero stare al gioco. Se il fascismo era davvero, come essi avevano sostenuto per meglio vincere la guerra, una sorta d'incarnazione satanica, un «male» generato dal male, nessuna potenza vincitrice era tenuta a interrogarsi sulle cause della II guerra mondiale e sulle proprie responsabilità dopo la fine della prima. Promuovendo il fascismo al rango di «male assoluto» gli alleati permisero agli italiani di sbarazzarsi del loro passato con una menzogna e di mettere la guerra sulle spalle di un uomo, Mussolini. Gli italiani, quin- di, non avevano perduto la guerra. E se non l'avevano perduta non era necessario intentare un processo alla nazione, individuare gli errori materiali e morali che avevano portato il Paese alla disfatta. In realtà tutti sapevano che le cose erano andate diversamente, che il consenso aveva accompagnato Mussolini sino alla fine degli Anni 30 e che si era gradualmente dissolto soltanto dopo i bombardamenti e le prime sconfitte. Sapevano che l'antifascismo era stato, nella migliore delle ipotesi, un approdo tardivo e che quasi tutti gli italiani, anche se in misura diversa e in momenti diversi della loro vita, erano stati fascisti. Ma continuarono a mentire perché avevano concluso con l'antifascismo e con gli alleati un patto conveniente. Una menzogna - «non abbiamo perso la guerra» - divenne cosi l'ideologia fondante della Repubblica democratica. (...) L'impossibilità di parlare della II guerra mondiale se non in termini ambigui e vittimi¬ stici si ripercosse all'indietro su tutto il passato nazionale e colpì a morte le memorie della prima guerra mondiale. Se Mussolini aveva portato al re «l'Italia di Vittorio Veneto», come egli disse al Quirinale il 30 ottobre '22, era impossibile ormai parlare di Vittorio Veneto con accenti patriottici. L'orgoglio nazionale fu sequestrato dalla destra radicale d'ispirazione fascista e divenne ancor più anomalo, illegittimo, «eterodosso». Si creò in tal modo un vuoto di coscienza storica in cui si precipitarono, per riempirlo, le forze politiche che non erano mai state risorgimentali. Intellettuali marxisti e cattolici riscrissero la storia secondo una diversa prospettiva. La nuova sequenza cronologica comprendeva soltanto sconfitte, ribellioni, moti popolari, repressioni militari e poliziesche. Custoza e Lissa divennero più importanti di San Martino e Solferino, le jacqueries dei briganti meridionali divennero guerra di popolo contro l'oppressore piemontese, Adua fu descritta con compiacimenti, i fasci siciliani e i moti di Milano del 1898 furono esaltati come sintomi di rivoluzione nascente, la guerra di Libia fu rappresentata come un'arrogante operazione coloniale e Omar el Mukhtar, leader della resistenza in Cirenaica negli Aimi 20, assunse maggiore rilievo nella storiografia coloniale dei bersaglieri trucidati nell'oasi di Tripoli nell'ottobre 1912. Letta in negativo la storia nazionale registrava soltanto date infauste o truci: non più la presa di Gorizia e l'affondamento della Viribus Unitis, ma Caporetto e le decimazioni dell'esercito in fuga dopo la rottura del fronte; non più la conquista dell'Amba Alagi e la presa di Addis Abeba, ma l'uso dei gas asfissianti durante le operazioni militari e le repressioni dopo l'attentato a Graziani nel febbraio 1937. Si affermò una letteratura storica che raccontava il colonialismo italiano come storia di soprusi e le due guerre mondiali come storia di masse popolari sacrificate nelle trincee dell'Isonzo e sulle sterminate pianure russe. Scomparvero Cesare Battisti, Nazario Sauro, Enrico Toti, Francesco Baracca; apparvero gli «uomini contro», i «sergenti nella neve» e le «centomila gavette di ghiaccio». Ritorno al campanile Dopo essere stati sottoposti alla retorica eroica e patriottarda della pedagogia fascista gli italiani furono sottoposti alla retorica populista dell'ideologia antirisorgimentale. La accettarono perché era parte integrante della bugia su cui la Repubblica era stata fondata. Qualcuno finì per crederci e per recitarla volonterosamente, molti si sbarazzarono della patria come di un bagaglio inutile e ingombrante, molti infine presero a odiare un Paese che li costringeva a mentire quotidianamente. (...) Un Paese di cui non si può parlare con orgoglio e che vi costringe a mentire diventa detestabile o risibile. La soppressione del sentimen- to nazionale ha avuto l'effetto di spingere molti italiani a ritrovare rifugio nel municipalismo, nel localismo, nel campanilismo. «Right or wrong my country» significa, tanto per fare un esempio, che il Palio, per Siena, è una sorta di 14 luglio, molto più entusiasmante di qualsiasi festa nazionale. Abbiamo assistito a una spartizione del patrimonio culturale nazionale nel corso della quale ogni città o regione ha orgogliosamente rivendicato la propria parte ed è diventata spiritualmente autosufficiente. E poiché ciascuno ha diritto a una quota parte di poesia, musica, pittura, scultura, scienza, eroismo, santità e ricerca scientifica, il panorama culturale italiano si è rimpicciolito e appiattito. Non esiste più una gerarchia nazionale di valori intellettuali e morali; esiste una selva di torri e campanili. Se ogni patria locale viene prima del cuore di chi vi è nato le patrie si equivalgono. Se Recanati ha Leopardi, Vicenza ha Zanella e Fogazzaro, se Asti ha Alfieri, Drenerò ha Giolitti e Stradella ha Depretis, se Macerata ha Matteo Ricci, Rovereto ha Rosmini, se Bomba ha i fratelli Spaventa, Molfetta ha Salvemini, se Barletta ha De Nittis, Messina ha Antonello e Ferrara ha Boldini, se Pesaro ha Rossini, Busseto ha Verdi e Lucca ha Puccini. Donde un profluvio di convegni, mostre e festival in cui ciascuno celebra i «propri». Non esiste più una grande «cucina» culturale nazionale in cui si confeziona il meglio per i bisogni spirituali del Paese. Esistono soltanto i vìns du pays che si consumano sul posto. Alcuni sono buoni, molti viaggiano male. L'altra conseguenza della menzogna è l'italofobia. Costretti a mentire su se stessi e sul loro passato, obbligati a dimenticare o a ricordare selettivamente, gli italiani hanno finito per disprezzarsi, per rovesciare sull'italiano collettivo l'imbarazzo e il disagio che ciascuno di essi prova per se stesso. Non basta. Per evitare che altri dica male dell'Italia occorre precederlo e surclassarlo. L'orgoglio che ogni uomo prova nell'identificarsi con la propria patria si è rovesciato nel suo contrario. Siamo tanto più bravi e intelligenti quanto più ci affrettiamo a parlare male dell'Italia. Intravedo all'orizzonte un'altra menzogna. Dopo avere rifiutato di considerare il fascismo un peccato nazionale e dopo essersi assolti «per non avere commesso il fatto», gli italiani stanno addebitando Tangentopoli a Bettino Craxi e a qualche centinaio di uomini politici, imprenditori, funzionari. Sanno che è una bugia, ma cederanno probabilmente alla tentazione di credervi per assolversi in tal modo anche da questo peccato. E dopo, temo, avranno un'altra ragione per disprezzarsi. Sergio Romano Ss „ La storia nazionale riletta in negativo: dalla retorica eroica e patnottarda fascista all anti-Risorgimento Né desiderio di rivalsa né processo al Paese: ci siamo sbarazzati del nostro passato mettendo la guerra sulle spalle del duce «Perché serve l'Italia?»: è il tema del convegno, organizzato dalla rivista Limes, che si terrà domani e sabato a Venezia (Palazzo Labia), con la partecipazione fra gli altri di Ernesto Galli della Loggia, Lucio Caracciolo, Angelo Panebianco. Giulio Tremonti, Massimo Cacciari, del card. Silvestrini e del ministro Maroni. Allo stesso argomento è dedicato il numero monografico di Limes a giorni in libreria. Anticipiamo l'intervento di Sergio Romano. Sergio Romano. Ss Oltre l'abitudine „ tipicamente latina di autodenigrarsi, c'è un sentimento più profondo e più serio: perché gli italiani disprezzano se stessi