Il giorno della pace per i figli di Abramo

Rabin e re Hussein firmano, Clinton cita la Bibbia e promette: il terrorismo non vincerà Rabin e re Hussein firmano, Clinton cita la Bibbia e promette: il terrorismo non vincerà Il giorno della pace per i figli di Abramo L'ombra di Arafat sulla festa di Israele e Giordania WADI ARABA NOSTRO SERVIZIO Nel deserto, come sempre, si annuncia la Nuova Parola: pace, Shalom, Salaam, come hanno ripetuto Bill Clinton, Yitzhak Rabin, il re Hussein. Davanti le tribune, immense, con cinquemila ospiti illustri, gli occhi delle telecamere di tutto il mondo puntate, la stampa, e poi di fronte, il tappeto rosso sulla sabbia gialla e nera, il palco con il tavolo dove i due ministri degli Esteri, l'israeliano Shimon Peres e il premier giordano Abdul Salam Majali hanno firmato il trattato; e i grandi, tra cui anche il presidente Ezcr Weizman, il principe della corona Hassan, il segretario di Stato americano Warren Christopher, il msso Andrey Kozirev, il ministro degli Esteri Antonio Martino. Dopo 46 anni di guerre, sotto un sole da poco meno di 40 gradi, senza un filo d'ombra, un altro miracolo è avvenuto. Intorno il grande teatro mediorientale inscenava, persino ieri, il suo eterno conflitto: Arafat furente proclamava uno sciopero parallelo a quello di Hamas, ribadendo che Gerusalemme sarà la capitale dello Stato palestinese e non un patronato religioso-politico del Regno hascemita di Hussein; Israele esibiva tutta la sua gioia mostrando ai bambini delle scuole tutta la cerimonia del Trattato di Pace; le Katiusce, però, piovevano dal Libano sulla città di Kiriat Shmone; le opposizioni israeliane non rinunciavano a ribadire i loro sospetti, Assad di Siria preparava l'incontro di domani con Clinton, desideroso di ribadire la sua forza. E tuttavia, più forte di tutto il palcoscenico della storia, accanto ai discorsi politici, si levavano le voci di un muftì e di un rabbino, che pregavano insieme per la paco. Hussein è arrivato per primo dal deserto dell'Arhvà, alle sue spalle la mitica Aqaba. Sotto una grande tenda marrone posta dietro al palco si è rifugiato all'ombra con la splendente moglie Nur e gli altri suoi familiari ad attendere gli ospiti. Poi all'una è andato incontro a Rabin e a Peres, con calore e a grandi passi, e poi di nuovo verso Ezer Weizman. Infine tutti insieme hanno accolto Clinton, elastico, ventoso, affiancato da Hillary che, per caso, era vestita con un tailleur dello stesso turchese e di taglio quasi identico a quello della regina. Il grande proscenio era pronto: il cielo accecante, compatto, le signore sedute in platea e in prima fila, i Grandi sul palcoscenico, tutti vestiti di blu e a capo scoperto sotto la canicola (Rabin però si è fatto presto portare un cappelluccio con su scritto in ebraico: «Ufficio del primo ministro»). Gli speaker chiedono alla folla il silenzio, e sulle montagne rosse, nelle valli sabbiose cosparse ancora di mine (ò proibito a tutti allontanarsi dall'asfalto appena gettato) le bande nazionali giordana e israeliana fanno risuonare le note dei tre inni nazionali, giordano, israeliano e americano. Fra un attimo scoppierà la pace. Non importa più se Clinton ha voluto (così si dice) la cerimonia proprio all'una perché tutti gli americani possano guardarlo fra un toast e il primo caffè del mattino, data la diversità di fuso orario; né che la forza dei media divori anche il deserto con il suo frastuono, le sue voci. D'un tratto s'impone una realtà più forte di tutto, quella della guerra e della pace, e chiama a raccolta in un minuto di silenzio per tutti coloro che sono morti nelle tante guerre del passato. «Io credo che siano qui con noi» dice re Hussein, il primo a parlare. La sua voce è quella delle lacrime, molto bassa, molto fiera; è davvero un re quello che proclama la pace, «un dono di pace e di tolleranza, la fine della diffidenza e della paura per le future generazioni»; è un re sul trono quello che annuncia che non ci sarà più né morte né miseria, né ansia come nel passato per tutti i figli di Abramo: giordani, arabi, israeliani, palestinési. «Scopriremo l'uno il volto umano dell'altro, sapremo finalmente quanto abbiamo tutti quanti sofferto. Così consentiremo alle prossime generazioni una vita migliore». «Hag sameah» esordisce Rabin in ebraico: «Buona festa al popolo d'Israele e al popolo giordano» per cui la leadership ha solo preparato una strada a lungo desiderata sulla base della scelta della gente. Rabin si guarda intorno con quella sua forza timida da militare, e trova i suoi migliori accenti da condottiero; sfodera un piglio mosaico per chiedere al deserto «senza vita, senza acqua, pieno di mine, senza neppure un fiore» di saper di nuovo germogliare nello sforzo congiunto di due popoli finalmente in pace. «La desolazione - dice - ha invaso il cuore di due generazioni, ma noi siamo quelli che renderanno il deserto vivo, vibrante, verde!». Gli occhi di Hussein si riempiono di lacrime quando Rabin lo loda per il suo atteggiamento sempre quieto e sorridente, Clinton ha un grande sorriso quando Rabin lo indica come indispensabile sostenitore della pace. «Oggi nascono dei bambini sia a Gerusalemme che ad Amman, bambini fortunati da madri fortunate, perché per loro e per le loro madri abbiamo la speranza che non dovremo mai più vedere la sofferenza attraversata dalle passate generazioni». Poi è la volta di Peres, di Christopher, di Kosirev. Ma ormai è il tempo del grande mallevadore americano: Clinton sta per prendere la parola. La platea resiste ancora, beve a bottiglia sotto il calore impossibile, i media si agitano. Il Presidente dona loro un discorso glorioso ammantato di modestia: «Grazie per averci fatto lavorare con voi alla pace, siete due popoli straordinari guidati da leader straordinari, grazie per aver creduto in noi come garanti e averci fornito questa grande occasione... Abbiamo rotto le catene della sofferenza». Il re, dice Clinton, ha saputo realizzare il sogno del suo precursore Abdullah di vedere gli ebrei e gli arabi vivere fianco a fianco, Rabin ha utilizzato la sua forza e il suo coraggio di soldato per realizzare la pace. «Ora vi dico - Clinton diviene d'un tratto un padre affettuoso ma molto potente - aprite i vostri cuori oltre i vostri confini, lavorate per trarre il meglio dalla pace. E noi non lasccramo che vinca il terrorismo che nega la pace e non abbandona l'odio». Siano benedetti i portatori di pace, conclude biblicamente Clinton. Il presidente sa però che questa pace è stata possibile perché si è trattato di una «pace in cambio di pace», che non ha richiesto a nessuno prezzi di carattere territoriale; che non vi sono comunità da sradicare; non soldati stranieri da collocare sui confini; nessun assetto strategico da rivedere completamente. Inoltre il sottinteso che ha tenuto Arafat lontano dalla cerimonia (cui non è stato invitato) è il comune rischio palestinese che Israele e Giordania da sempre affrontano, è la speranza che la pace lo neutralizzi almeno in parte. Tutto il contrario dell'accordo con Assad, che aspetta Clinton stamani per un difficile colloquio. La cerimonia finisce, sono ormai le due: a Eilat, città di vacanze, molti hanno seguitato a fare il bagno. A Tel Aviv ancora si piange per l'attentato di Dizengoff. Le limousine si muovono dal deserto col loro carico di commozione verso un futuro un po' meno terribile, forse, ma sempre mediorientale. Fiamma Nirenstein Sole cocente, inni e una gaffe: Hillary e la regina Nur con lo stesso vestito YITZHAK RABIN ^ ^ Ora non possiamo limitarci a R R sognare un futuro migliore, ma dobbiamo crearlo. Perché entrambi i nostri Paesi sono decisi a portare a termine la grande rivoluzione che avrà luogo in questi anni. la nostra generazione e la prossima trasformeranno questo deserto arido in una fertile oasi. BILL CLINTON «La pace ha bisogno di essere coltivata con devozione e pazienza affinché le ferite si rimarginino. Aprite le vostre frontiere, i vostri cuori. Le forze del terrore tenteranno di farvi arretrare. Non possiamo, non dobbiamo dargliela vinta. Come dicono le Scritture: beati coloro che lavorano per la pace, perché erediteranno la Terra. RE HUSSEIN ^ ? Non ci. saranno più lutti, né RR miseria, né sospetti, né paure, né incertezze... Siamo tutti ifigli di Abramo... Si tratta di un giorno come nessun altro prima: in termini di speranza, di promesse, di determinazione. Un giorno che, con Valuto del Signore, sarà ricordato come Vinizio di una nuova era di pace. Un messaggio chiaro da Casablanca La regione è aperta agli affari A fianco, Rabin e re Hussein osservano la sedia vuota di Clinton che sta tenendo il suo discorso Sotto, la storica stretta di mano