Quando Boll sognava il pane

Quando Boll sognava il pane IL CASO. Pubblicate le «lettere della disperazione» scritte dal Nobel dopo la prigionia Quando Boll sognava il pane BONN DAL NOSTRO CORRISPONDENTE «Il 15 settembre del '45, il pomeriggio alle 16,15 ho finalmente lasciato l'ultimo filo spinato vicino all'Università di Bonn... Mi è venuto un capogiro, alla consapevolezza di essere libero dopo quasi sette anni. E che cosa sorprendente: sul traghetto ho incontrato mia sorella che mi ha raccontato di mio figlio: Christoph è nato il 20 luglio e mia moglie è sana, ma lui adesso è in ospedale con la dissenteria». Quel pomeriggio di settembre, il primo giorno di libertà dopo la guerra e poi la prigionia in un campo americano, Heinrich Boll l'avrebbe trascorso in bicicletta «vestito con le mie cose di P.O.W.», gli abiti degli internati: decine di chilometri fra Bonn e Siegburg, all'ospedale dov'era ricoverato Christoph ormai in fin di vita, e poi a Nesshowen, il villaggio dove s'era rifugiata la moglie Annemarie. Quel viaggio sarebbe diventato una corsa in mezzo al fango e fra mucchi di rovine, il primo incontro con le terribili devastazioni della Germania appena uscita dal nazismo e dal conflitto. Ma anche la prima «cronaca del dopoguerra» del futuro Premio Nobel: Boll l'avrebbe inviata in forma di lettera a Ernst-Adolf Kunz, che aveva condiviso con lui la detenzione e che diventerà il suo amico più fedele, il suo consigliere editoriale, la sua instancabile fonte di conforto negli anni della povertà, della ricerca di un lavoro e «della letteratura». Con lui, il ventisettenne ex prigioniero di guerra, ex apprendista libraio e futuro «falegname in attesa di editore», avviò quel giorno un epistolario vasto e intenso, raccolto ora in volume dall'editore «Kiepenheuer und Witsch» di Colonia («Die Hoffnung ist wie ein Wildes Ticr»). Una sorpresa, l'incontro con un Boll aggredito dalle «terribili difficoltà della vita» e sospinto da «un solo desiderio» - quello di scrivere - destinato a rivelarsi «un'avventura faticosa», per uno sconosciuto e in un Paese dov'erano rimasti pochissimi editori. «E' davvero desolante starsene li come un individuo letterario», avrebbe annotato nel luglio del '49, quando ancora cercava dappertutto - e invano contatti «con giovani scrittori». Da Kunz, un Boll assediato dalla penuria e dall'ansia - una depressione che soltanto «la nicotina, l'alcol e l'Optalidon» riuscivano a smorzare - otteneva un ascolto illimitato e paziente, ma soprattutto l'incoraggiamento che cercava. «Sono debole e malato come un vecchio», gli scriveva: lamentandosi di non avere soldi mentre stava per nascergli un secondo figlio e chiedendogli di tutto, «lampadine da 15 e da 25 Watt», o del Saridon contro il mal di testa e la paura, o magari della carta che gli mancava sempre. «Un giorno verrà la fine di queste prove incredibili che tu certo non hai meritato, un giorno riuscirai ad avere tranquillità e felicità», gli rispondeva garbato e rassicurante il «caro Ada». Sempre disposto a consolarlo, sempre pronto a organizzare «serate letterarie» in casa sua, dove lo scritto¬ re dilettante poteva leggere racconti e appunti di romanzo davanti al pubblico della famiglia Kunz: Ernst-Adolf, sua madre Gertruda, le sue sorelle Wera e Anita subito entusiaste, come confermano le lettere del giorno dopo a Heinrich. «I tuoi racconti sono stati accolti da un trionfo, davvero in famiglia sono piaciuti moltissimo», gli scriveva «Ada» il 5 settembre del '47. «Il tuo giudizio mi ha di nuovo dato coraggio», gli rispondeva Boll; «anche i giudizi di Anita e W^ra mi hanno dato una grande spinta, perché ero tanto depresso e per la mia incredibile stanchezza... E anche gli incoraggiamenti di mia moglie sono belli. Ma l'eco è troppo vicina, se capisci che cosa voglio dire. In ogni caso ho mandato all'editore una bozza corretta del racconto («Zwischen Lemberg und Czernowitz», ndr), e per quattro settimane aspetterò con ansia il postino: prima della nascita di nostro figlio, una Regina o un René chissà, mi piacerebbe avere in tasca un anticipo». Ma qualche volta i trionfi in casa Kunz non bastavano a scuotere un giovane ancora tormentato dai «sogni del pane», i sogni «di una grande quantità di pane fresco e fragrante» che continuavano «ad essere tanto vivi e insoddisfatti». Qualche volta vinceva la paura di se stesso e del futuro: «Mi sono iscritto all'università per mettere insieme almeno un paio di semestri», scriveva Boll nell'aprile del '48; «ma non so se ha molto senso costruirsi una cosiddetta esistenza sicura. Tutto mi è indifferente, e dopo quel che abbiamo vissuto in guerra e in prigionia mi sembra del tutto irrilevante quale ruolo potrò mai svolgere nella società». Anche quando si intravede «una piccola possibilità di successo», perché l'editore Carrusel di Kassel pubblicherà finalmente «un piccolo racconto» e il Rheinische Merkur ne acquisterà forse un altro, Boll non nasconde la frustrazione, il disappunto: «Sogno il successo prorompente e non per il successo in sé, ma perché non avrò più bisogno di accettare compromessi», lamenta. Ma insiste, riempie quaderni e blocchi («mio fratello mi ha procurato 1500 fogli e non ne ho già più», annuncia disperato a Kunz): scrive di giorno e nelle notti devastate dall'insonnia, mentre si occupa di René in assenza della moglie «tornata ad insegnare», e fra una lezione privata e l'altra a giovani studenti di Colonia. Nel '48 «riempie cinquecento pagine»: ma dovrà aspettare ancora un anno prima di pubblicare il primo romanzo, Il treno era in orario, e poi il '53 per arrivare al successo con E non disse nemmeno una parola. Quello stesso anno, finalmente emancipato dal terrore di «non farcela», Boll scrive L'immortale Teodora, un racconto in cui lascia a Bodo Bengelmann il compito di riassumere scherzando le sue angosce. «La fama è solo una questione di francobolli», dice Bodo che come Heinrich lo sa bene: ha investito tutto lo stipendio, 50 marchi, per «spedire 300 poesie a 300 redazioni». Emanuele Novazio «Questo è ormai diventato un Paese senza editori. Vivo grazie all'Optalidon» Le angosce nella Germania distrutta La Germania distrutta che si mostrò agli occhi del giovane Heinrich Boll (nella foto piccola) appena uscito dalla guerra e dalla prigionia. Sotto, le truppe sovietiche entrano a Berlino

Luoghi citati: Berlino, Bonn, Ernst-adolf Kunz, Germania