Il vecchio vizio della «lista» di Filippo Ceccarelli

Il vecchio vizio della «lista» Il vecchio vizio della «lista» La lunga guerra alle penne avvelenate CROMA OME invece avviene nella Seconda, per graziosa innovazione bossiana. «Non parlate con Quaranta! sibilava De Mita - Guai a chi parla con Quaranta!». E anche qui, per misurare il mutamento delle forme, vale la pena di ricordare che l'embargo decretato dal segretario democristiano al valente giornalista dell'espresso (al quale pare fosse personalmente pronto a «sputare in faccia» dopo certi servizi sul terremoto), ecco, l'appello demitiano venne recepito in realtà come una specie di blando ammonimento. Cambiano dunque - incarognendosi anche, di solito - le apparenze. In questo senso Craxi e De Mita sono esemplari di un'epoca in cui bastava tirar giù qualche parolaccia e telefonare agli editori per ritenere chiusa la pratica con gli adorati, odiati media. Anche quando si trattava di esportare la lite all'estero (vedi incidente craxiano con Le Monde o proteste demitiane per stampa Usa cattiva con sua pronuncia incomprensibile e altre amenità). Entrambi, comunque, come tanti altri, avevano di volta in volta le loro bestie nere da attaccare o spedire in tribunale: Cavallari, Montanelli, Scalfari, «unico incommensurabile mascalzone» e pure Liguori (che ebbe qualche fastidio paragiu- diziario). Quaranta, del resto, alfiere di un giornalismo modernizzante, senza complessi rispetto ai politici, si prendeva a ceffoni con Evangelisti o sfuggiva di fronte alla carica del capoufficio stampa di De Martino che voleva spegnergli la cicca in un occhio. Il missino Pazzaglia schiaffeggiava l'attuale portavoce di FI Tajani. Ma erano, perloppiù, scontri individuali. Non investivano le due categorie. Non sollevavano, come oggi, problemi di convivenza. Al massimo i giornalisti producevano qualche articolo sadico quando i deputati si aumentavano lo stipendio. E Giusy La Ganga godeva, di rimando, quando si scopriva il pasticciaccio delle raccomandazioni agli esami professionali: «Oddio - scherzava - mi crolla il mito del giornalista integerrimo!». E allora i giornalisti, contro-replica, raccontavano che sotto Natale l'ufficio postale di Montecitorio era intasato di regali. «E però anche voi ce l'avete, i regali» ringhiava disperatamente Vito Napoli. Niente liste di proscrizione, comunque. O almeno: niente liste palesi di giornalisti nemici. Ogni tanto, è vero, scappava (e scappa ancora) fuori qualche elenco, qualche repertorio di debolezze umane e professionali: giornalisti sul libro paga dell'Agip, pagati dal Sisde o penne pulite dalla Montedison. Ma questo dei quattrini era un vizio antico. Una strategia, semmai, opposta a quella delle liste di cronisti da evitare. Meno rozzo, ma parecchio, di Bossi, è noto che Giovanni Giolitti pagasse sottobanco un discreto numero di giornalisti della sala stampa di Montecitorio: «Un piccolo mondo rumoroso, in mezzo al quale - annotava lo spione-corruttore di turno - bisogna cercare di mantenere una nota moderata, se non del tutto quieta». I sussidi andavano dalle 50 alle 200 lire. In un elenco a parte i giornalisti su cui potevano valere altri argomenti: «amicizie, onori, cariche, lusinghe». Il regime fascista, da quel punto di vista, ebbe ancora meno problemi. Fu la democrazia a rilanciare il ruolo autonomo della stampa. Autonomo, però, è qui una parola assai vaga. E' difficile, infatti, stabilire con esattezza in quale preciso momento si consumò la fine dell'era degli screzi individuali. Se fu, per dire, l'indice puntato dell'onorevole Zoppi, che intimava ai cronisti dopo l'ennesimo servizio sui privilegi parlamentari: «Basta, via di qui!». Oppure se furono le proteste di Pannella che «uno non può neanche più uscire dall'aula che subito si trova davanti a un muro di taccuini». O quelle di D'Alema: «Pure ai servizi igienici, ti inseguono, per strapparti delle stupidate». Fatto sta che negli Anni 90, in singolare (e sospetta) coincidenza con una fase in cui s'annullavano i confini tra politica e mass media, e anzi la comunicazione diveniva la forma attuale della politica, i deputi tati cominciarono a pretendere spazi fisici propri e a sollecitare recinti nel Palazzo. La rivendicazione territoriale, classica delle fasi pre-belliche, trovò una brutale e simbolica conferma quest'anno al ristorante della Camera. E fu lo scontro dei «culetti d'oro»: così l'onorevole Lia volle infatti nominare i giornalisti riottosi a cedergli il posto a tavola. Si riaprì l'annosa questione: «Questa è casa nostra - esclamò l'on. Enoc Mariano - e a voi non vi ha eletto nessuno!». Ma ormai, crollata la vecchia politica, l'informazione riteneva quasi di averne preso il posto. Come tanti aggressivi Chiambretti, parecchi giornalisti andavano a caccia di notizie senza timori, anzi «con molestie - notava Alberto Arbasino - così simili alle aggressioni da semaforo», e tuttavia capaci di capire che l'onorevole Bossi faceva un po' troppo il furbo. Così, un giorno, inseguito e sbertucciato, questi emanò l'inutile, ma sintomatica lista. E ora si entra tutti in una nuova era. Filippo Ceccarelli Le sberle di Evangelisti gli sputi di De Mita le cicche negli occhi di De Martino ti A sinistra Piero Chiambretti a destra Giovanni Giolitti A destra il giornalista dell'Espresso Guido Quaranta

Luoghi citati: Ome, Usa