La Laguna è un colpo d'occhio di Marco Vallora

I grandi «vedutisti» del 700, da Luca Carlevarijs al rivale Canaletto I grandi «vedutisti» del 700, da Luca Carlevarijs al rivale Canaletto La Laguna è un colpo d'occhio Così Venezia diventò una Città Teatro EPADOVA ILIPPO Baldinucci, sul finire del Seicento: «Dicono i nostri artefici talvolta veduta per lo stesso che prospettiva, o lontananza in prospettiva: onde bella veduta dicesi a paese vasto e ameno, che vero o dipinto molto dimostra all'occhio: e proprissimamente dicesi disegnar vedute a quello studio che hanno i Pittori, particolarmente Paesanti, andando intomo per diverse campagne, o luoghi eminenti di Città, ritraendo o con penna o con stile o con inchiostro della China o con acquerelli, paesi, abitazioni boscherecce, Città, fiumi e simili; costume stato usatissimo da' pittori fiamminghi». Potremmo anche metter punto, e andare a casa, vinti dall'immaginoso dettato del trattatista toscano, così ricco per di più d'informazioni: e magari anche di fonti d'equivoco. Non ci si figuri, infatti, Carlevarijs, Canaletto o Marieschi (e meno che mai gli intabarrati fiamminghi) come antesignani d'impressionisti o di Van Gogh, immersi col loro cavalletto nel bisbigliarne enplein air lagunare e goldoniano. Certo, «vero o dipinto», essi prelevavano («pipavano» per dirla con Montale) materia dalla natura, con complesse apparecchiature la cui funzione è ancora a noi abbastanza misteriosa, quale per esempio la proiettiva camera oscura: poi si ritiravano in studio ad assembleare quelle loro voraci prese di «tabacco» ottico. Ed è bella, nel Baldinucci, quella consapevolezza mercantile dello studio che «molto dimostra all'occhio»: in cui traspare l'astuzia mercuriale dell'artista, che carica la tela di dettagli architettonici e magari di figurine vezzose impegnate nei loro mestieri (compreso il dissacrante cagnino che fa la sua cacca proprio nel momento più delicato della cerimonia vescovile) pur di far contento il commit- tente od il ricco viaggiatore, che certo del «vero» toponomastico se ne preoccupa relativamente. Venezia come Gran teatro del mondo: e non si trascuri - nel testo di Baldinucci - un dettaglio: fra tanta idilliaca ed amena «vasta» natura, soltanto la Città ha l'autorevole onore della maiuscola. Quale simbolo della magnificenza del Potere, strategico assemblaggio di «luoghi eminenti»: di emblematici monumenti e di scorci esemplari. Ci voleva in effetti una rappresentativa rassegna che studiasse finalmente organicamente la nascita della veduta a Venezia, che sembra una tematica ad essa originariamente connaturata: ed invece si scopre, da un bel saggio 1978 di André Corboz (ora rinfrescato per questo denso e ricco catalogo Electa) che, rispetto a Roma - per esempio -, la veduta d'impianto nordico, appunto, «fiammingo» giunge piuttosto in ritardo in Laguna. Già Giuliano Briganti aveva studiato con sospetto i possibili rapporti tra van Wittel (documentato a Venezia intorno al 1694) con l'udinese Carlevarijs, orfano dei genitori in giovanissima età e che nel '79 si trasferisce a Venezia con la sorella Cassandra, protetto da una famiglia aristocratica, così da trasformarsi in Luca di Ca' Zenobio. Coerentemente l'ambiziosa rassegna, aperta al Palazzo della Ragione di Padova, sino al 26 dicembre, non s'incentra soltanto su Luca Carlevarijs, ma spazia intorno al tema della «Veduta veneziana del '700» dando giusto rilievo ai nordici balbettamenti inaugurali, dall'erede di Salvator Rosa Eismann a Daret al «Richter Svezzese», ovvero il suo «scolare» svedese (peccato manchi il Ghisolfi, che sarebbe un buon anello di congiunzione). Lo sforzo del curatore Dario Succi, con nuove attribuzioni e ridatazioni, che vanno ancora vagliate, è dunque quella di anticipare, rispetto all'arrivo del Vanvitelli, l'attività vedutistica di Luca, del resto già considera¬ to famoso nella Guida de' Forestieri del Coronelli, che è del 1700, quale autore di capricci ma anche di «paesi» cioè di paesaggi. E certo già esperto di prospettive veneziane se nel 1703, dopo «non lieve fatica» ed anni di misurazioni e di scelte d'angolazioni propizie, poteva dedicare al Doge Mocenigo quell'incunabolo-monumento di vedute a stampa che è rappresentato dalle oltre cento tavole di Le Fabbriche e Vedute di Venetia, parzialmente in mostra. Seguire il suo cammino espressivo, dalle prime, affascinanti prove biblico-poussiniane (con quel vago cubismo delle case-dado sbiancate in profondità) sino alle incerte prove finali, quando la comparsa dell'acclamato rivaleilluminista Canaletto lo farà, secondo leggenda del Moschini, «dal dolore morirne». All'inizio se suo - lo sguardo si posa soprattutto sul pic-nic di cose morte, poponi, bottiglie, tovaglie «et in Arcadia ego»: poi l'architettura prende il sopravven¬ to, diventando protagonista di questi «ritratti» urbanistici. Sul valore dei suoi capolavori, venuti da Potsdam, da Dresda, dall'Olanda e trattenuti qui in un Sancta Sanctorum, nulla da dire: elegante quella sua scrittura armonica delle figurine, quello sbambagiarsi rosato degli sfondi, quel picchiettare quasi fiammingo la tela di pattinatori sulla lacca della laguna. Stupisce invece il saliscendi stilistico di altre attribuzioni proposte. Ma stupisce soprattutto la scelta delle opere dei suoi compagni maggiori, Canaletti e Marieschi di collezioni private (mai dar troppo credito ai Crediti), Guardi insoliti, Cimaroli alquanto polistilistici e due Stoni poco accostabili (come sempre su tutti vince l'invincibile Bellotto). Con rispetto, si ha persino l'impressione che non pochi leoni sulle colonne di San Marco sgradiscano, dinoccolandosi, certe attribuzioni. Marco Vallora Una veduta del Canaletto in mostra a Padova, fino al 26 dicembre