MEGARUSSIA di Ernesto Gagliano

MEGARUSS1A MEGARUSS1A La saga fotografica di un Paese in cui tutto è «fuori misura» CHE emozione approdare a Londra negli anni della regina Vittoria, in quel mezzo secolo glorioso che va dal 1851 al 1901: è come toccare il cuore del mondo. Ecco il centro della «prima nazione industriale», la capitale dell'impero, la Babilonia del Nord. Disraeli polemizza con Gladstone, Marx medita al British Museum: rivivono virtù e vizi, contrasti sociali, perfino rumori e odori che si sentono per strada. A rievocarli è un libro agile, con saggi di autori diversi [Londra, l'oro e la fame, pp. 222, L. 28.500, traduzione di Valentina Guani), proposto da Frassinella Descrizioni, taglio sociale e notizie si mescolano in un efficace collage. Un Baedeker per viaggiare nel passato? Un preambolo per rendere più accorto il visitatore di oggi? Il risultato è uno spaccato di microstoria in cui si entra con grande curiosità, come nei padiglioni dell'Esposizione Universale del 1851 quando la superiorità del modello britannico appariva «schiacciante». Ma qui Londra (l'edizione originale fa parte della collana francese «Mémoires») si mette anche in discussione. Il viaggiatore che sbarca dal continente è impressionato dalle dimensioni della metropoli. Annota Hippolyte Taine: «I club sono palazzi, gli hotel monumenti, il fiume è un braccio di mare, le carrozze vanno due volte più veloci... la gente produce e spende il doppio che da noi». Stéphane Mallarmé, che è fuggito là con una ragazza tedesca, dice di amare anche la nebbia «così bella, così grigia, così gialla». Aggiunge: «L'azzurro e le stelle fanno paura. Qui uno si sente a casa propria e Dio non lo vede. Il suo spione, il sole, non osa strisciare fin qui...». E si apprende che verso il 1900 quella «romantica foschia» è un cocktail di solfuro, carbonio e fuliggine prodotto dal consumo di 18 milioni di tonnellate di carbone l'anno. Altri sono meno affascinati dall'«anima inglese» come Jules Vallès, in esilio per aver partecipato alla Comune, che trova il Tamigi «color dei fango» e il eie- NON si può misurare la Russia con la ragione, disse nel secolo scorso un grande poeta romantico. Si può soltanto comprenderla con le emozioni e con i sentimenti. Conosciamo la sua storia, abbiamo letto libri scrupolosi e documentati in cui ogni avvenimento - dalla rivoluzione del 1905 al bombardamento della Casa Bianca nell'ottobre del 1993 - è collocato in una giusta prospettiva. Ma alla fine di ogni libro il lettore ritrova in sé lo stesso sentimento di curiosità inappagata con cui si era accinto alla lettura e non riesce a comprendere perché cause simili abbiano prodotto in altri Paesi avvenimenti infinitamente meno drammatici. Nessuna tesi storiografica, nessun argomento economico o sociale possono dare ragione di ciò che è accaduto in Russia negli ultimi cento anni della sua storia. La vastità della scena, la ferocia della trama, la dimensione dei personaggi, l'intensità degli odi e degli amori, la somma contraddittoria degli atti nobili e crudeli concorrono a rendere la Russia un Paese ineffabile. Ecco un esempio. Sappiamo che il 30 agosto 1918 Lenin fu ferito al petto e al collo da una socialista rivoluzionaria, Fanja Kaplan, che gli rimproverava la pace di Brest e la brutale soppressione dell'assemblea costituente a Pietrogrado nel gennaio dello stesso anno. Quelle ferite furono probabilmente all'origine degli ictus che lo colpirono ripetutamente fra il maggio del 1922 e il marzo del 1923. Sappiano anche che passò gli ultimi mesi della sua vita in una casa di campagna a cinquanta chilometri da Mosca e che gli storici hanno dedicato molte pagine al «testamen¬ to» con cui cercò d'influire sugli orientamenti del partito e la scelta del suo successore. Di quel periodo conosciamo ora una immagine, finalmente emersa dagli archivi sovietici e pubblicata da Brian Moynahan in un grande affresco fotografico sul Secolo russo (De Agostini, pp. 320, L. 125.000). Avvolto dal collo ai piedi in un grande camice bianco, Lenin è ritratto su una elegante sedia a rotelle nel parco della villa fra la sorella minore, Maria Uljanova, e un neurochirurgo. La mano sinistra è appoggiata sul bracciolo della sedia mentre il braccio destro, colpito dall'ictus, riposa inerte nel grembo. Appaiono più grandi, sul volto fortemente dimagrito, il berretto, le orecchie, la barba, il naso e soprattutto gli occhi. Lenin guarda il fotografo con occhi sbarrati e allucinati, come se cercasse di trasmettere al suo Paese, con quello sguardo, un ulti¬ mo messaggio. Nessuna biografia potrà mai spiegarci che cosa passasse in quel momento per la testa di Vladimir Ilijc. Soltanto Shakespeare, forse, potrebbe dirci, con un nuovo King Lear, quali visioni e quali incubi abitassero allora nella mente dell'uomo che aveva conquistato il potere, scatenato il terrore e costruito con alcuni milioni di morti il primo Stato totalitario della storia contemporanea. Là dove non bastano l'opera degli storici e l'intuizione dei poeti l'obiettivo del fotografo può essere l'unico strumento capace di misurare la realtà russa. Le splendide fotografie raccolte da Brian Moynahan per il suo libro confermano che il Paese è inafferrabile, «eccessivo». Ogni immagine evoca una grande saga in cui la grandezza e la miseria sono, come la crudeltà e la bontà, «fuori misura». Le partite di caccia dello zar, i banchetti della nobiltà di Pietro¬ burgo, i grandi picnic, i pogrom, le 1600 chiese di Mosca, i cinquemila monasteri della Grande madre Russia, i «burlaki» che trascinano le chiatte del Volga, i forzati delle isole Sachalin, le donne soldato dei primi reggimenti femminili durante la Grande Guerra, gli operai-schiavi all'opera per la costruzione del canale del Baltico o della rete irrigua di Fergana, i venti milioni di vecchi credenti che sfidano la collera del Patriarca ortodosso o del regime comunista, i 2952 carri armati tedeschi distrutti durante la battaglia di Kursk: tutto, in Russia, è «più grande del vero». La vita e la morte, soprattutto la morte, si misurano soltanto con i grandi numeri. Nessuno, alla fine della prima guerra mondiale, sapeva con esattezza quanti russi fossero morti sul campo di battaglia. «Nel registro delle perdite scrisse Hindenburg, comandante Ernesto Gagliano