Lucia Rodocanachi, coautrice delle loro traduzioni di Oreste Del Buono

Lucia Rodocanachi, coautrice delle loro traduzioni Lucia Rodocanachi, coautrice delle loro traduzioni ITTOPINI deve consegnare fra non molto il St. Mawr di Lawrence a Mondadori, con l'appendice di un'altra novella. In tutto 300 pagine Tauchnitz delle quali ha fatte 150; altre 150, tutte di St. Mawr, restano da farsi, e il tempo stringe. Accetterebbe di farle lei, solo letteralmente, a tamburo battente? Vitt. le manderebbe il libro e alcune delle parti già fatte, sia per darle modo di anticipare alcune caratteristiche del suo "stile" (!) nel pezzo che farà Lei sia perché corregga qualche strafalcione che gli sarà certo sfuggito. Queste correzioni andrebbero fatte a lapis. Il testo suo dovrebbe essere molto spazieggiato e meglio se a macchina (ma non credo indispensabile se ciò deve costarle), per questo lavoro V. le darebbe solo 500 lire (da riceversi presto: fra un paio di mesi), dato che lo pagano ancora poco, ma in seguito le darebbe (se faranno altri lavori come Mondadori vuole) anche 1000, cioè più della metà. Naturalmente l'accordo dovrà restare segreto. Vuole scrivere subito la risposta a Elio Vittorini presso Gabinetto Vieusseux?...» aveva scritto il 10 maggio 1933 Eugenio Montale, appunto dal Gabinetto Vieusseux che dirigeva a Firenze, alla sua amica Lucia Rodocanachi ad Arenzano. Eugenio Montale, evidentemente, non aveva troppa fiducia nelle capacità di traduttore dall'inglese del pupillo Elio Vittorini, e, al contrario, aveva fiducia in quelle della signora Lucia Rodocanachi che conosceva da quando era ancora la signorina Lucia Morpurgo, nata il 25 novembre nel 1901 a Trieste ma trasferitasi nel 1914, al seguito della sua famiglia, a Genova, città subito amata e odiata allo stesso tempo. Eugenio Montale era un amico dell'uomo che lei aveva sposato nel 1930, il pittore Paolo Rodocanachi, e a Genova, prima di scendere a Firenze a fare il segretario dell'editore Bemporad, aveva frequentato casa Morpurgo come lo studio del promesso sposo. Eugenio Montale non ignorava la cultura e la passione per la letteratura e per quanto apparisse elevato e difficile di Lucia Morpurgo da tre anni in Rodocanachi, la diligenza e la tenacia che era in grado di mettere in tutto quel che faceva come se fosse sempre qualcosa di essenziale e di necessario, e, dunque, non temeva che l'amica non accettasse la richiesta di aiuto rivoltale a nome di Elio Vittorini in difficoltà con la traduzione di Lawrence in modo molto più grave del denunciato in quella lettera del 10 maggio 1933. E, infatti, da Arenzano arrivò rapidamente l'accettazione di quella che si proponeva come una sfida al tempo. Allora Elio Vittorini rivelò di avere, in realtà, tradotto solo 50 pagine, si disse imbarazzato nel dover imporre una data capestro, ovvero la consegna della traduzione il 15 giugno già troppo vicino, e passò a subissare la traduttrice vincolata al sacrificio e al segreto, di disposizioni, ordini ed esigenze a partire da una significativa lettera del 12 maggio. Si prega di non stupirsi per la velocità delle Poste negli Anni Trenta: «Dunque Lei dovrebbe partire da pagina, precisamente, 52 - Rico decided to accept... e andare a fondo, saitanto da p. 93 {And she had a vision) a pag. 97 (Bud with itself, is strong and at peace) perché intendo tagliarlo via. Io sono certo che la sua traduzione potrebbe essere tale da pubblicarsi senz'altro - ma siccome dovrò renderla in un certo senso mia - la prego di mandarmela nella prima stesura, diciamo così, letterale, in modo che possa rifinirla nel senso mio. Me la mandi pure in manoscritto - la sua calligrafia è leggibilissima -, vuol dire che io farò il mio lavoro direttamente a macchina. Ma sarebbe bene che potessi averlo a mano a mano che procede nel lavoro, di trenta in trenta pagine ad esempio: poiché la data è quella, 15 giugno - e cioè non abbiamo che un mese davanti a noi perché il tutto sia a Milano. A parte le mando 12 pagine campionarie del mio infame modo di tradurre - e precisamente quelle già passate per le mani dell'editore come Saggio, così Lei può anche rendersi conto delle osservazioni editoriali -, e delle esigenze, idem (cfr. la lettera ed. che ac- contiene tuttavia passaggi sublimi su Leningrado con i suoi palazzi di marmo, «gioielli duri in riva all'acqua livida» della Neva. Maestosa, ciclopica, la città «formicola in realtà di canaglie, vive sull'orlo di immense pattumiere, è lo spaventoso strofinaccio di Tatiana Carestia... immensa disfatta in sospeso... catastrofe che vegeta»... Esattamente come oggi, negli Anni 90, che è caduto il sipario comunista e tutti possono confermare. Scrive Gide, a proposito del carattere pretestuoso dell'antisemitismo celiniano, che «non è la realtà che Celine dipinge: è l'allucinazione della realtà». Ma in Russia, Celine non ebbe allucinazioni, vide realtà allucinanti, come l'immane ospedale per malattie veneree che visita - in Bagatelle - con un collega medico nei sobborghi di Leningrado: l'ospedale è un'immane pattumiera, dove regna la sporcizia, cola il pus, e la degradazione igienica è radicale: «E' un caos di atrocità, una fatalità mille volte più schiacciante, perversa, demoniaca di quel che Dostoievskji avrebbe mai immaginato». Ma il collega si finge nell'edenico villaggio Potemkin, ancora una volta: «Tutto va bene qui. Qui stiamo tutti assai bene». Celine lo chiama con disprezzo Compagno Tuttovabenovic. Lui, Celine, è abituato a portare il lettore sull'orlo delle putrescenze, delle pattumiere. Proprio come Swift, potrebbe dire di sé: «Scrivo non per piacere all'umanità, ma per ferirla». O ancor più come nei versi di Hòlderlin: «Affrettati a corromperli del tutto, conducili al terribile nulla: altrimenti non ti crederanno, tanto sono corrotti. / Questi pazzi non si convertiranno se non sentono vertigine. Non... se non vedono putrefazione». Celine ha ferito molto, e spesso colpevolmente, ma l'umanità da lui scovata è più che reale: «"L'Uomo è precisamente ciò che mangia". Engels aveva scoperto anche questo, il gran furbo! Una menzogna colossale! L'uomo è ben altro ancora, qualcosa di ben più torbido e schifoso della faccenda dell'aboffarsi. Mica solo le trippe bisogna guardargli ma anche quel suo grazioso cervellino!». E nel cervello, Céline-Destouches aveva trovato: «Il desiderio del nulla profondamente installato nell'Uomo e soprattutto nella massa degli uomini, una sorta di impazienza amorosa, quasi irresistibile, unanime, per la morte» (discorso su Zola, 1933). Gorkji sosteneva che questo era nichilismo, che Celine aveva «perso l'ombra» ed era «emigrato dalla realtà». Ma Gorkji doveva sapere (e sapeva) che non c'era bisogno di emigrare dal reale - in particolare dal socialismo reale - per divenire nichilista, o irriducibile anarchico come Celine. A quei tempi la realtà non era promettente, era piena di impazienza del nulla. Anche ai nostri tempi lo è, e anche oggi c'è bisogno di scrittori che - conducendoci al terribile nulla aiutino a vederla meglio. duttore di autori classici e ideatore di fortunate collane il secondo. E' appunto qui che la vicenda Rodocanachi ha un piccolo precedente...». Il piccolo precedente derivava dal fatto che il 3 febbraio 1933, tormentato da dichiarate difficoltà di bilancio domestico e avido di nuove collaborazioni, Elio Vittorini si era raccomandato da Firenze a Enrico Piceni che faceva parte presso la Mondadori del comitato di direzione della collana «Medusa», il grande sforzo in programma quell'anno per intervenire nel campo delle letterature straniere da parte di una casa editrice disponente sino ad allora di un catalogo spiccatamente nazionale. In concorrenza con la collana «Scrittori di tutto il mondo» varata nel 1929 dall'estroso Gian Dàuli per la casa editrice Modernissima e continuata nel 1930 dalla casa editrice Corbaccio di Enrico Dall'Oglio, la Mondadori offriva nel 1933 «I grandi narratori d'ogni paese» in volumi formato cm. 11,5 per 19,5 con sobrie ma molto nitide affascinan- eludo pure). In seguito le manderò il resto delle pagine fino a 50 pregandola di correggerle nel senso accennato dall'editore...». In L'editore Vittorini (Einaudi, 1992) Gian Carlo Ferretti avanza l'ipotesi che dalla prima traduzione di Elio Vittorini e dai suoi successivi rapporti con Lucia Rodocanachi non esca soltanto un'aneddotica curiosa e poco edificante: «Ne esce anche un'esperienza del giovane Vittorini che pone problemi di verifica filologico-stilistica (e bibliografica) per alcune sue traduzioni, e di ricostruzione critica per l'apprendistato della sua carriera editoriale: alla quale si cercherà di dare qui un primo contributo, reiterpretando in questa chiave aspetti noti e meno noti della sua personalità intellettuale. La prima fase di questa attività è documentata, oltre che dalle lettere a Lucia Rodocanachi, dai carteggi mondadoriani, nei quali Vittorini ha come committenti e interlocutori Enrico Piceni e Luigi Rusca, noto saggista e abilissimo traduttore dall'inglese il primo, studioso e tra- \ \ citato L'editore Vittorini come una manifestazione di improntitudine eccessiva e si aggiunge agli altri capi a carico che sono lo sfruttamento di un'altra persona per realizzare un'opera spacciata per propria, il mancato rispetto dell'integrità del testo originale attraverso tagli e ritocchi, la scarsa puntualità nel pagamento dei compensi dovuti alla collaboratrice. Gian Carlo Ferretti si azzarda a ricostruire quelle che potevano essere all'epoca le entrate di Elio Vittorini, e pur non approdando a dati significativi, sentenzia confermata la sproporzione tra l'effettiva condizione economica dell'indiziato e l'immagine di povertà che lui tracciava nelle lettere a Lucia Rodocanachi per motivare le reiterate inadempienze. E tutto questo per arrivare alla conclusione che tali riprovevoli comportamenti di autoritaria spregiudicatezza indicavano in Elio Vittorini l'affermarsi della vocazione a far l'editore. Quando cominciarono a lavorare insieme, lei ad Arenzano, lui a Firenze, Lucia Rodocanachi ti copertine in bianco e verde su cui dominava la stilizzata testa di Medusa disegnata dal grande grafico Bruno Angoletta. Ed Elio Vittorini si era intrepidamente offerto come traduttore. Aveva segnalato alcuni suoi articoli e saggi recenti su Hawthorne, Defoe e la Mansfield, ne aveva citato altri più antichi su Sinclair Lewis e Melville, a comprova della sua specializzazione nel campo della letteratura anglosassone, e aveva elencato alcuni autori inglesi o americani di cui si sarebbe sentito di tradurre le opere, ma non aveva rinunciato a dire che, all'occorrenza, avrebbe potuto tradurre agevolmente anche dal francese. E, nel suo zelo e nella sua disperazione, si era spinto a dichiararsi disposto a tradurre persino dal tedesco, lingua a lui sconosciuta: «Per il tedesco, ma in collaborazione con una signorina bavarese di mia conoscenza, ad esempio II Castello di Franz Kafka oppure Mich Hungert...». Questo piccolo precedente è registrato nella requisitoria contro Elio Vittorini che apre il già A sin.: Lucia Rodocanachi Sopra: Montale. C. I. Lue/orici e Adriano dande. Sotto: Elio Ulto/ini Il poeta la definì «négresse inconnue» Lo scrittore le chiese aiuto per Lawrence \ Anche Gadda e Sbarbaro ricorsero a lei per le loro versioni aveva trentadue anni ed Elio Vittorini venticinque. Lei si era sposata da tre anni, ma il marito Paolo era spesso assente, per cui la moglie soffriva di solitudine e di una crescente sensazione di un incurabile fallimento. I coniugi Rodocanachi avevano pensato di passare due anni ad Arenzano per prepararsi nella tranquillità della riviera a una futura vita più intensa dedicata all'arte, ma il tempo aveva preso a passare senza che balenassero nuove prospettive. Ogni tanto la casa di Arenzano accoglieva ospiti illustri, da Eugenio Montale a Camillo Sbarbaro, da Adriano Grande a Roberto Bazlen, da Angelo Barile a Gianna Manzini, ma non si poteva ricevere tutti i giorni. E poi come uniche soddisfazioni restavano a Lucia Rodocanachi la lettura e la corrispondenza, l'arte, in un certo senso, di leggere libri e l'arte di scrivere lettere. L'avvio dell'attività di traduttrice, sia pur segreta per quanto riguardava la fama e poco promettente per quanto riguardava il guadagno, introdusse una svolta nelle l'entusiasmo della prima traduzione fatta insieme con Elio Vittorini era ormai svanito, e le capitava di provare sempre più spesso dei risentimenti nei confronti di chi le imponeva tante fatiche e non corrispondeva con puntualità gli scarsi compensi né si decideva ad associare il suo nome nei frontespizi dei libri tradotti. I soldi, sia pure pochi, le erano utili perché la casa di Arenzano aveva sempre bisogno di qualche cura, e non era che il marito Paolo ricavasse granché dall'attività artistica. Ma quello che bruciava di più a Lucia Rodocanachi era quel dovere starsene nascosta, non partecipare ufficialmente al successo di Elio Vittorini, che si accaparrava sempre più incarichi, avendo la sicurezza del suo aiuto. Così, a volte, affrontava il litigio epistolare per recuperare i compensi dovuti o mancava deliberatamente alla consegna del silenzio, come in questa lettera a Carlo Bo in data 27 novembre 1937: «La traduzione di Lawrence citata sul Frontespizio, l'ho fatta io, e rispetti il segreto di Pulcinella, Vitt. non ci si è affaticato sopra. Creda, quella prosa che appena tipperettata mi faceva arrossire, mi riempie di legittimo orgoglio con le arditezze del suo stile ora che non lavoro incalzata dai S.O.S. del negriero...». Ma era sempre pronta a farsi sfruttare ancora. Tipperettare era un neologismo di Camillo Sbarbaro per battere a macchina. Del resto, in quegli stessi anni, quanto a traduzione era sfruttata da altri amici illustri, da Camillo Sbarbaro, a esempio, da Carlo Emilio Gadda, nonché dallo stesso Eugenio Montale che si serviva di lei al solito modo vittoriniano: «Dimmi a occhio e croce se potresti tradurre letteralmente e lasciando tra una riga e l'altra un grande spazio il romanzo di Steinbeck To God Unknown che ti manderei a parte. Non mi occorre una traduzione accurata; basta che siano precisi quei 100/200 luoghi (eventuale slang, termini tecnici) che possono costituire la difficoltà del libro in modoche la mia revisione possa essere solo stilistico-formale senza che io debba più ricorrere a vocabolari e possa star sicuro. Mondadori ha fretta. Potresti far tutto in 40 giorni?» scriveva, a esempio, Eugenio Montale da Firenze il 24 maggio 1940: «La faccenda dovrebbe restare assolutamente fra di noi e neppure Vittorini dovrebbe essere informato...». Ed era proprio Eugenio Montale a definirla négresse inconnue. L'ultimo significato della voce negro sull'anticipatore Zingarelli 1995 è: «(scherz.) Scrittore che redige per altri discorsi e testi in genere, rimanendo anonimo». L'abbreviazione «scherz.» sta, ovviamente, per «scherzo», «scherzosamente» ed è chiaro che Eugenio Montale scherzasse definendo così l'amica, ma si trattava di uno scherzo intriso d'affetto e di solidarietà che, nonostante le buone intenzioni, rinnovava in Lucia Rodocanachi il dolore della sua impossibile situazione: aver tradotto gran parte dei libri più importanti del Novecento senza figurare, avere aiutato a perpetrare una specie di continua frode culturale alcuni tra i più illustri letterati degli Anni Trenta. Il perché lo avesse fatto era probabilmente un mistero anche per lei. Per questo il genovese Giuseppe Marcenaro ha scritto su di lei un'attenta biografia che diventa quasi inevitabilmente il romanzo di una solitudine, il bel libro che s'intitola Una amica di Montale (Camunia, 1991). Lucia Rodocanachi morì il 22 maggio 1978. «E' difficile e fors'anche improprio, a distanza di così tanti anni indagare ulteriormente per svelare un segreto fino ad oggi custodito» scrive Giuseppe Marcenaro. «Il sospetto che Lucia, con me, abbia parlato per mezzo di simboli, a distanza di anni si fa chiaro. La mia memoria registra sapori e odori. Ricordo, ad esempio, il polveroso aroma di una mimosa secca e insieme l'uscita in libreria di Satura di Montale, letto insieme a Lucia, che si interrompeva per parlarmi del suo amico di un tempo, del poeta, un uomo impaurito, sensibile e timido che, secondo Lucia, aveva vissuto la sua esperienza creativa come una sorta di revanche nei confronti della città dov'era nato e che non l'aveva capito...». sue giornate. La sfida per rispettare il contratto con la Mondadori era ardua ma Lucia Rodocanachi s'impegnò con tutte le sue energie e il 22 maggio 1933 Elio Vittorini le scrisse per avvertirla che a Firenze erano felicemente arrivati i primi 50 fogli, proprio come lui desiderava. Elio Vittorini scialava in elogi, raccomandazioni e incitamenti, e pareva mettersi del tutto nelle mani della collaboratrice, come, a esempio, in questa lettera del 6 giugno 1933: «La prego di correggere sui fogli stessi, si capisce a matita. C'è anche qualche vuoto, qualche dubbio, e forse delle frasi da rifare completamente. Veda lei, insomma - e mi dica anche se come narrazione corre abbastanza, se c'è tono...1.». La traduzione di St. Mawr piacque a Enrico Piceni e alle altre gerarchie della Mondadori, e così Elio Vittorini insistè a sfruttare la buona volontà della signora di Arenzano, proponendole a ripetizione altre traduzioni. C'era una quantità di libri da tradurre, e Lucia Rodocanachi continuò a lavorare, anche se Oreste del Buono