NEL SOLE DI BIGONGIARI

NEL SOLE DI BIGONGIÀRI NEL SOLE DI BIGONGIÀRI Gli ottantanni di un ermetico CBARBERINO DI MUGELLO (Firenze) HE sia un'occasione, se vuole montaliana, ma solo un'occasione per ragionare di poesia e dire due o tre cose su di me, gli amici, i maestri. Ma non divaghiamo intorno all'episodio anagrafico». Piero Bigongiari, voce impavidamente ermetica, attende di stupire gli ottant'anni in arrivo (il 15 ottobre) esibendo un'anima non rugosa, solare (Il sole della sera - talvolta il caso è ad hoc s'intitola il libro di racconti inediti e rari appena uscito da Passigli; «Nel sole della sera» esordisce una lirica recente). Sembra lontano il male di vivere in questa casa di villeggiatura sospesa fra Moretti e Gozzano, un rifugio disegnato col lapis, la magnolia in giardino, i secoli che si rincorrono di stanza in stanza: il mobilio ottocentesco, la tela barocca, gli alberi sorvegliati di Chessa, fra i «Sei» di Torino. Così teso e conteso sulla pagina, Bigongiari. Così disteso nella quotidianità, epifania di una possibile felicità (o, almeno, serenità). Un trauma adolescenziale avrebbe potuto condurlo nell'alveo del crepuscolarismo: «Nato a Navacchio, vicino a Pisa, vissi a Pistoia dagli undici ai ventiquattro anni. Via del Vento 5, una dimora del Seicento, due quadri incastrati nel muro, arcadico-pastorale il soggetto. Venduto che fu il palazzo, il nuovo proprietario si sbarazzò delle opere d'arte». Una mutilazione evocata nella raccolta ««Torre d'Arnolfo» («...le scale salgono a semicerchio verso il nulla, / i riquadri del salone sono da tempo privi dei pastori»). Ma non coltivata o addirittura vezzeggiata, cospargendola magari di ironia (secondo lo stile crepuscolare). A lenirla, forse fino a sanarla, è venuta in soccorso l'«allucinazione» cara a Rimbaud: «...soldato accanto al gran sepolcro vuoto» è un verso che rinvia a «Vigila, o mia vita assente!». «Da Rimbaud a Mallarmé, a Baudelaire, il debito maggiore ce l'ho verso i simbolisti francesi», riconosce Bigongiari, sul tavolo altri due omaggi freschi di stampa: il primo volume di Tutte le poesie (1933-1963), a cura di Paolo Fabrizio Iacuzzi, presentazione di Carlo Bo (Le Lettere, pp. 408, s.i.p.) e l'antologia a cura di Giancarlo Quiriconi Poesie (Jaca Book, pp. 224, L. 18.000). Anni Trenta, la Firenze dei caffè, delle riviste, dei professori - la stilettata è di Carlo Bo - «che oggi sarebbero chiamati democratici e allora erano soltanto liberi: Pasquali, Benedetto, Orsini». Bigongiari, allievo di Attilio Momigliano e futuro docente di storia della letteratura moderna e contemporanea, si laurea nel '36 discutendo una tesi su Leopardi: «Studiai il conte di Recanati per smentire Croce, secondo cui la poesia è mera intuizione. Ho cercato di dimostrare - i Canti, le loro varianti sono prove rigorose - che la poesia ha una sua storia, un decorso psicologico, logico, inventivo, non esiste a priori». Croce «corretto» da Leopardi, dunque. «E Leopardi, a sua volta, corretto dal Manzoni. Soprattutto le lettere e gli scritti critici di Don Lisander, per il senso della razionalità che instillano, mi evitarono il naufragio nel pessimismo cosmico, nel pathos estremo». Bigongiari torna al giorno di laurea: «In aula c'erano Montale, Bonsanti, Loria, i solariani al completo. Bonsanti, in segno di stima, mi chiese di collaborare a Letteratura». Ma non è l'unico foglio ad ospitarne la firma: aderirà a Campo di Marte, Prospettive, Corrente, sarà redattore di Paragone, la creatura di Roberto Longhi. L'alloro universitario chiude la stagione al caffè «San Marco» (con i coetanei o quasi Bo, Luzi, Macrì, Landolfi), spalanca le porte delle maieutiche «Giubbe Rosse»: «C'era il monumentale Gadda, sempre, mattino, pomeriggio, sera. E Arturo Loria: dapprima rinserrato - ci considerava oscuri -, poi familiarizzammo. E Montale: un signore di pochissime parole, spie di un'avarizia assoluta. Ma che tali erano le dimensioni dello sbracamento generale - finì per 'Nel utile doliti sera, sconosciuta a sé e agli alili ulularli il fanciulla; nuli ira mula e nini parlava: mi vicina alla lillà - /imitila a ninnila!' - i rari aumentavano r gli sterpi ■sulla il mia passo incerili, latrina /issa. ■<( 'he rasa travi r/it' nini cerchi inrnlrr cai raggi attillili tiri sale li inerpicili sulle sue munì?». Sana anch'esse cerchisull'acqua faine tinnitila affamiti il sasso gettalo sulla nilma tifila spcrrhio tini'fanciullo nella sua eli) giorosa. ma non è più trastulla ria che Iti ritti orti gli ilice: "Osa!... /.' mentre creili ili inoltrarli e fai solecchio ioli la Ulano per scrutare più ti fonilo lutiti intorno l'orizzonte, ri affondi, ma si ti/larga intorno ti le imporsi come il coté sul quale limavamo il nostro carattere». La via ermetica alla dignità nell'Italia del consenso. «Fu l'epoca dei prigionieri in patria - rifletteva Bigongiari nell'Autoritratto poetico, 1959 -. E fu in questo straordinario ma drammatico silenzio che nacque la parola della terza generazione, quando aperta a una sorta di intenerimento interiore, quando orgogliosamente chiusa a una civiltà esterna ch'essa rifiutava in blocco». Il debutto poetico, il pubblico passo d'avvio, nel 1942 con La figlia di Babilonia, ma il battesimo del verso risale al 19331934: «Bevono i carcerati un po' d'acqua, / hanno sete sete, / alzando la ciotola con le mani a coppa». La terza generazione, dopo Ungaretti, Quasimodo, Montale, il Montale poeta della negazione. Bigongiari valica le frontiere del «no», mette in contatto positivo e negativo, oscilla ininterrottamente fra il si e il no, plasma la doppia polarità, architetta il motore delle contraddizioni, insegue, nell'officina linguistica, un punto di equilibrio: «La verità non è che la coincidenza/di qualcosa con qualcosa di simile e diverso». Da inseguire, allorché si esauriscono le tracce (tema del UNA SERA, V Una profetica denuncia: «Mea culpa», pamphlet del '36 suWUrss ora tradotto da Roboni NT ON si può fare a meno di leggere Celine, se si vuole andare in fondo alle notti che spiegano questo secolo. Se si vuole andare in fondo al mattatoio che fu la guerra del '14-'18; in fondo all'odio antisemita, che lo scrittore fece proprio; e in fondo alla catastrofe dell'Unione Sovietica, oggi evidente a tutti. Dietro tutti questi disastri, un'ebete volontà umana di illudersi, una analoga mistica della felicità unita alla «psicosi guerriera», che Celine mise sul tavolo e vivisezionò come fosse una carcassa, come in quei quadri di Rembrandt dove i dottori squadrano il livido cadavere squarciato, in attesa della lezione di anatomia. Livido è Celine quando scruta i vizi umani nelle vesti di medico dei poveri (il suo nome professionale era Destouches) e da questo livore fuoriesce pura poesia. Le tre grandi illusioni sono finite nel fango, adesso - l'illusione nazionalista, razziale, comunista - e forse bisogna adottare il punto di vista del fango per capirle e disfarsene. Louis-Ferdinand Celine aveva questo punto di vista, fangoso. E' uno dei rari, nel ventesimo secolo. La sua limpidissima scrittura, il suo sboccato e preciso vocabolario, li impiegò a questo scopo: per «mettere la propria pelle sul tavolo e vedere cosa ne verrà fuori», confessò una volta. Per andare fino in fondo alle borgate dell'uomo, che sono l'orlo sbrecciato delle metropoli e il volto più vero dell'umanità, non ancora truccato, nudo: «fango tenace e periferie indomabili», come la borgata Bicètre nel Viaggio al termine della notte. Solo nelle periferie indomabili (di Parigi o Leningrado) Céline-Destouches poteva vedersi confermato nella convinzione che l'uomo non è creditore di felicità; che il Mea Culpa, opportunamente inventato dalla Chiesa «pratica» e disillusa, è il suo destino. «Noi non viviamo che nei sogni e nei simboli, e quel che ci è dovuto è una dittatura», disse lo scrittore in un discorso su Emile Zola nel 1933. Così radicale era in lui il disprezzo dell'Uomo - l'uomo ottocentesco che ha scacciato Dio e si ritiene infallibile, centrale nell'universo - che il disprezzo divenne delirio antisemita: obnubilato odio della Borgata povera e bottegaia per il Centro truccato e borghese. Mea Culpa è un pamphlet metafisico sull'Unione Sovietica, dove il romanziere si era recato come altri scrittori progressisti dell'epoca. E' il terribile ritratto di un fallimento, che sarà poi completato in Bagatelle per un massacro, dove Leningrado apparirà come «immensa disfatta in sospeso, catastrofe che vegeta», e diverrà l'emblema del male sovietico-comunista. L'editore Guanda ha appena ripubblicato il primo dei due libelli, nella bella traduzione di Raboni (pp.77, L. 16.000), e il momento è ben scelto: adesso che si può andare liberamente in ex Urss, si