«Ho comprato un rene a Bombay» di Marco Neirotti

E «Ho comprato un rene a Bombay» «Trenta milioni per liberarmi da un incubo» MONDO TRAPIANTI E RA un indiano simpatico, rassicurante soprattutto. Parlava un discreto italiano. Disse che sarebbe andato tutto bene, che nel giro di dieciquindici giorni sarei tornato a casa. Costo del tutto: trenta milioni, più il viaggio per me e per un accompagnatore». Nella speranza di chiudere con lungo troncone dolente della propria vita conduce ai gesti estremi. Come cercare un rene da donatori vivi che per fame vendono i reni in India come in Egitto. Un grande esodo verso Israele è stato frenato dalla pace tra ebrei e palestinesi: prima, è triste dirlo, con le tante morti violente, tagliavano il cielo quasi dei «charter dei trapianti». «Io ho fatto nove anni di dialisi», racconta L. P„ lombardo, 54 anni. «E alla dialisi non mi ci sono mai abituato. Alla fine ho preso contatti. Tel Aviv mi ha risposto picche, così anche altri Paesi, tra i quali l'Egitto. Un amico mi ha detto, da Roma, che l'India era la via più facile». Facile nel senso che si tratta di prendere il rene di un povero che per qualche soldo da portare a casa vende un pezzo di sé. «Lo so, è tremendo, ma in quel momento pensi che uno a lui resta ed è sufficiente e uno a te sarà sufficiente e ti cambierà la vita. Ti convinci di una cosa: vivremo bene tutti e due. La cosa agghiacciante è che lo incontri. Si inchina addirittura e ti ringrazia: gli hai portato tremila dollari. Per lui valgono più di un pezzo che ha dentro. Così manterrà un figlio per diciotto anni. Vuole sapere che cosa mi chiedo sempre? Non mi chiedo di lui, mi chiedo di quel figlio: fra diciotto anni venderà un re- ne e tirerà su un altro figlio fino a diciotto anni». Quest'uomo racconta un caso-emblema. Ma un caso come tanti altri. Un altro dializzato ha speso 60 milioni per un trapianto in Egitto. E' tornato con il rene nuovo. Poi sono cominciate le complicazioni. Glielo hanno espiantato per salvargli la vita. E' tornato in dialisi. Molto del mercato straniero degli organi dipende da liste d'attesa affollate, tempi lunghi. Spiega il professor Antonio Vercellone, direttore del centro di nefrologia delle Molinette di Torino: «Quattro ore al giorno per tre giorni la settimana attaccati alla macchina. L'intervento cambierà la vita». In sala d'aspetto alle Molinette c'è Giorgio Carmignani, 52 anni, commerciante. Aspetta il fratello in dialisi e dice: «Pensare che dieci anni fa mio fratello mi disse: lo metto io un rene, te lo trapiantano e va tutto a posto. Oggi io sono un trapiantato che assiste lui che s'è ammalato». Carmignani si è fatto la bellezza di vent'anni di dialisi: «Era il 1969, avevo 28 anni. Quando mi hanno mandato qui, mi sono guardato intorno e ho pensato: non se ne parla nemmeno. Il professore ci ha messo venti giorni a convincer- mi. Poi il dottor Segoloni mi telefona alle 3 di notte del 4 aprile e mi dice: venga, c'è il rene. Gli ho detto: può richiamarmi fra dieci minuti? Lui ha detto: va bene. Come niente fosse. Ho telefonato ai parenti. Quando il dottor Segoloni ha richiamato gli ho detto: arrivo». Che cosa significa svegliarsi dall'anestesia sapendo che non ci saranno più appuntamenti con queste macchine? «Lo sa che cos'è la gioia? Non è quella. La gioia è quando dici: Cristo!, sto orinando!». Lo ripetono, su queste poltroncine azzurre nell'atrio del reparto, altri pazien¬ ti. Un commesso di negozio, veneziano d'origine - vent'anni di dialisi e poi il trapianto - ricorda la fatica di dire sì all'intervento: «Uscivo di casa e salutavo i miei figli piccoli dicendo: vado a lavorare. Venivo qui, facevo la dialisi, poi andavo al lavoro». Finché dissero: «Trapiantiamo». Sorride e dice: «Venni a trovare Carmignani dopo il trapianto. Quella fu la scossa definitiva. Mi misi in lista». Ed è lì per una visita di controllo Giovanni Di Roma, dirigente d'azienda, che scoprì d'improvviso che i suoi reni lo tradivano: «Vivevo a Roma. Rifiutavo psicologicamente l'idea della dialisi. Poi, mentre ero a Firenze per un convegno, ebbi un crollo e fui ricoverato. Mi spiegarono: o la dialisi o addio. Incominciai. E incominciai anche a sperare nel trapianto. Mi misi in lista, ma sentii altre possibilità, all'estero, Pittsburgh, Tel Aviv, Bruxelles. Mi chiamò Torino. Ricordo che avevo il telefono cellulare. Suonò durante la dialisi. Erano le 14,15. Venga su, arrivi entro le 22,30. Arrivai la sera e mi ricordo che per tutta la notte venivano anestesista, cardiologo, nefrologo. Alle sette mi addormentarono. E fecero il loro lavoro». L. P., invece, racconta il viaggio della speranza «al buio»: «Me ne parlò un conoscente. Dovete capire che, in tanti anni di vita mezza spesa in ospedale, si conoscono tante persone. E uno mi dà un numero di telefono. Non conosco l'indiano ma neppure l'inglese, gli rispondo. Lui mi dice che non importa, che va bene lo stesso, che "loro", disse proprio "loro", parlano italiano». Infatti gli risponde un gentile signore che gli dice che sì, il problema si può risolvere, che deve portarsi tutti gli esami di cui dispone, che è me¬ glio che arrivi con un accompagnatore («un parente, un amico, chi volevo, non c'era problema se si trattava di un medico di fiducia: i chirurghi di Bombay l'avrebbero volentieri ospitato in sala operatoria»). Costo? Trenta milioni (cinque al donatore), più naturalmente il viaggio. L'uomo parte con un amico. All'aeroporto li riceve l'indiano che li accompagna direttamente in clinica: «Un edificio di un beige slavato, mi pare di quattro piani. Mi hanno fatto altri esami. L'indomani è arrivato il donatore». E' arrivato e gli ha stretto la mano. Il «donatore» è un tale disposto a vendere per cinque milioni un rene. Con quei soldi (circa 3 mila dollari) la sua famiglia vivrà bene. «La cosa allucinante è che ci hanno presentati, ci hanno anche lasciati soli per un po'. A guardarci. Lui mi sorrideva. Era contento. Io pensavo: me ne vado, torno indietro. Ma era assurdo: ero andato fin lì per cambiare la mia vita. Quando sono tornati mi hanno fatto un'iniezione. Ho dormito, sono stato in sonnolenza fino all'intervento». Al risveglio un unico pensiero: «Tornare a casa il più presto possibile. Pensavo alla nostra malandata sanità: i nostri ospedali, l'assistenza dei nostri infermieri, lo scambio di parole con loro mi sembravano hotel a dieci stelle. Lì ti sorridevano e basta, non ci capivamo. Appena possibile, sono partito. Non ho avuto rigetto. Mi sono portato a casa un'epatite. E sono fortunato. Mi dicono che altri sono tornati con l'Aids». Marco Neirotti

Persone citate: Antonio Vercellone, Carmignani, Giorgio Carmignani, L. P., Segoloni