Il risveglio dell'auto, dopo la gelata

Il risveglio delPauto/ dopo la gelata La «rivoluzione», partita dalla fabbrica, arriva fino ai modelli che hanno conquistato l'Europa Il risveglio delPauto/ dopo la gelata Cantarella: abbiamo rischiato, ora siamo forti VIAGGIO NELLA NUOVA FIAT AUTla e lem sì I sono trovato in piena notte a violare il Salone dell'auto di Parigi, prima che aprisse i battenti, trascinato da Paolo Cantarella, il «padre» delle nuove auto Fiat, ed è stato uno spettacolo che aveva del luciferino. Cantarella è un uomo sotto i cinquanta, capelli corti, aspetto del ragazzone, un grande impermeabile volteggiante: «Andare a dormire? Ma se non è neanche mezzanotte. Forza, andiamo a spiare il Salone». E riattraversiamo Parigi dopo aver passato pomeriggio e sera in compagnia della stampa francese, convocata al Bois de Boulogne per parlare dell'automobile e, attraverso di lei, del caso-Italia. Figurarsi, ai sette tavoli tondi da dicci persone, la curiosità su Antonio Di Pietro. Visto da Parigi (dove i politici cominciano ad avere guai con la giustizia) risulta come il profeta del nuovo calvinismo destinato a un'Europa travolta dalla vendita delle moderne indulgenze: tangenti, pizzi e mance miliardarie. E i francesi non resistono alla tentazione didattica di spiegare a noi italiani - sono fatti così - quel che succede in casa nostra, restando cortesemente disinteressati alle opinioni di noi indigeni. Ma il protagonista del caso-Italia non era Di Pietro, e neppure Berlusconi, che pure li intriga. No, il protagonista era l'automobile perché quest'anno gli italiani sono venuti a Parigi a farla da padroni. Soltanto un anno fa gli italiani come fabbricanti di automobile qui erano dati per spacciati: non si vedevano, non vendevano, non avevano niente da mostrare, ma soltanto esposizioni di parole, senza oggetti concreti. Parlavano una lingua astratta. 10 ero venuto fin qui per capire. Volevo farmi spiegare la ripresa Fiat, i conti che tornano in attivo, l'ottimismo e soprattutto le macchine che piacciono: la Punto e le altre. Com'è successo? Mentre attraversiamo il grande bosco parigino Cantarella mi studia e racconta della scommessa di tutto il gruppo di quelli che lui chiama «gli appassionati»: investire nel momento di massima crisi - quando l'azienda sembrava in fondo al pozzo - e investire non tanto e non soltanto in modelli, macchine, oggetti, ma in una rivoluzione radicale del modo di produrre. 11 salone di Parigi aprirà i battenti soltanto l'indomani e soltanto per la stampa. Ci sarà una confusione d'inferno: il Mondiale dell'automobile è in una periferia per me sconosciuta, un gigantesco baraccone di strutture metalliche in cui un migliaio di inservienti, carpentieri, uomini e donne delle case automobilistiche stanno buttando il sangue per arrivare all'alba con il lavoro finito. Carrelli con l'unicorno per infilzare i rotoli di pavimento da svolgere ti inseguono peggio delle bestie di Jurassic Park, martellatori sadici menano botte da orbi, la gente si insulta, ti scansa, ti acceca con le lampade e sembra la strana notte di un Natale cromato, lucido d'acciaio. Le bestie lucenti, le automobili addormentate, se ne stanno lì ai loro posti, alcune già nude, moltissime inguainate nelle gualdrappe che le salvano dallo sguardo e dalla polvere. Qui le trattano a volumi, le descrivono senza averle mai viste, sono creature figlie dell'uomo. E gli somigliano. Devo avvertire i miei lettori: io di macchine non capisco molto. Anzi, niente. Figlio di un ingegnere dei trasporti ho passato un'infanzia per i saloni automobilistici e le stazioni ferroviarie dove come Michele Strogoff sono stato accecato e stordito per sempre da quei diversi colori, le forme dei veicoli, le locomotive, le macchine dai grandi pistoni e il disegno malandrino: ho la memoria sovraccarica di nomi e odori d'altri tempi. Per me la mac- china è oggi un utensile, non diverso dalla caffettiera: serve. Serve per andare, per muoversi. In automobile ci campo, ma è un vestito anonimo, generalmente ingombrante, comunque fedele. Mai passato al motorino. Voglio dire: non sono né un esperto, né un patito. Non ho idea di che cosa sia l'albero a camme, ma so che se si rompe sono guai. Sono «ingenuo» in materia, tutt'al più sensibile alla nostalgia, ma analfabeta. Iddio, sosteneva mio padre, ci ha dato due piedi: uno per l'acceleratore e uno per la frizione. Tanto mi bastava sapere. Così entro in questo rutilante e fascinoso inferno cercando di comportarmi da buon selvaggio. E qui, guardando Cantarella e gli altri, qualcosa si capisce. Voglio dire: più ancora da quel che fanno che da quel che dicono. Entrando avevo chiesto di rivelarmi come s'inventa una macchina di successo. La risposta sembra strana: «E' la passione». Adesso eccoli qui, Cantarella e i suoi che vanno a toccare le loro macchine, tolgono i teli, le denudano, le spogliano del loro abito di panno azzurro e ne covano forme e lucentezza. E' un continuo «venga, venga a vedere questa e mi dica se ha mai visto niente del genere». Non lo so, non me ne intendo, mi sembrano bellissime queste bestie fatte di fatica, intelletto e tecnologia, ma non mi azzardo ad entrare nel merito dei volumi, ritmi formali e sostanziali di cui capisco poco. Ma intanto guardo e ascolto. E vedo Cantarella che si sbraccia: «Ehi, voi laggiù : che diavolo ci fanno quei tavolini? Buttateli fuori, nascondono le macchine. Qui l'Ulisse non si vede più. Attenti al rotolo di plastica: Visto che roba? L'aveva mai vista la coupé? Mai vista? Ma la vada a toccare, vada a fiutarla». E va bene, vado a fiutarla, ma devo scansare un bolide cingolato che avanza sui sentieri di plastica pronto ad uccidere e travolgere. Il Salone è una bolgia, una festa sanguigna, non ha nulla di quell'eleganza composta e posticcia che mostrerà fra qualche ora quando aprirà al pubblico. Le macchine sembrano entità vitali momentaneamente in ipnosi. E la gente che lavora nel Salone, gli uomini in tuta vengono a guardare queste macchine-mannequin silenziose: frutti di un altro albero che non quello tradizionale, frutti di metabolismi nuovi e diversi. L'avvocato Agnelli mi aveva detto a Torino: «La ripresa della Fiat è frutto del sudore di chi sta dentro la fabbrica e del dolore di chi sta fuori perché abbiamo dovuto escluderlo. Io non dimentico che i fattori sono due: questi due». E allora, mentre guardo le auto dormienti di Parigi, la mia mente torna ad un altro luogo, una stanzetta torinese di via Perrone 3 bis, secondo piano, sopra le Acli. Lì ho alcuni esseri umani la cui sofferenza costituisce un fatto nuovo e inedito: l'altra faccia della medaglia del successo della Fiat. Sono gli impiegati e i quadri espulsi, messi in mobilità, prepensionati, allontanati dall'azienda. Di loro parleremo nei successivi articoli. Ma certamente la loro disperazione aveva qualcosa di diverso e ulteriore rispetto alla disperazione e alla frustrazione degli operai che hanno subito sorte analoga. Non era infatti mai accaduto nella storia di questa azienda che i «quadri», i famosi quadri che partecipa- rono alla marcia dei quarantamila, insieme ai tecnici e agli impiegati, fossero di colpo messi alla porta e per di più secondo una linea generazionale. La loro leader, Maria Teresa Arisio, una signora minuta ed elegante («ma», dicono i suoi colleghi, «con due palle così»), spiega: «Ho cominciato a lavorare nel 1961 ed io e quelli come me facciamo parte di una generazione sventurata: abbastanza povera da essere stata costretta a cominciare a lavorare prestissimo, estranea alle grandi contestazioni, legata a uno stile di vita che poggiava sulla continuità e la fedeltà ad una azienda che rappresentava la vita intera, improvvisamente decapitata e gettata nel,cesto». Naturalmente gli operai, quelli che nel gergo giocoso del sindacalese si chiamano con affetto «gli operaiacci», hanno inizialmente deriso e ulteriormente umiliato questi impiegati, questi funzionari borghesi in giacca e cravatta, quelli che per tanto tempo avevano mantenuto un po' di sopracciglio levato di fronte ai colletti blu. E Giuseppe Testore, segretario del Comitato Spontaneo formati dai colletti bianchi cacciati per consentire la ripresa dell'azienda, mi ha detto: «Sa, alcuni nostri colleghi sono rimasti barricati in casa per mesi, senza uscire per non incontrare la portiera. Temevano che il vicinato dicesse: se vi hanno cacciato dalla Fiat vorrà ben dire che l'avete fatta grossa, o che non sapete fare il vostro lavoro. Qualcuno di noi è andato fuori di testa, molti si sono trovati cacciati dalla famiglia perché le loro case non potevano permettere una convivenza prolungata tra figli e mogli e un disperato che improvvisamente scopriva che non si facevano i compiti per scuola, o che si sprecava l'energia elettrica». Ma la «rivoluzione» dolorosa e miracolosa dell'automobile sta triturando anche le parole con cui scrivo, la vecchia, collaudata distinzione tra «colletti bianchi» e «tute blu». Anche sotto questo aspetto simbolico e visibile, dove si mescolano status e vestiario, le cose sono cambiate. La fabbrica di Melfi, tra Avellino e Bari, una sorta di città spaziale industriale in cui l'utopia di un nuovo modo di fabbricare è stata messa in opera e anch'essa diventata «cosa», fra le altre rivoluzionarie novità presenta anche questa: operai, tecnici, ingegneri e impiegati indossano tutti la stessa identica tuta. E la barriera di classe, di livello sociale, è abbattuta. Abbattuta non per civetteria egualitaria, o per gentile concessione padronale, ma perché la nuova grande rivoluzione della fabbrica ha sgretolato la dimensione dell'autoritarismo: ognuno vale per quel che fa, prima ancora di quel che sa. E vedere gente (ragazzi sotto i trentanni) indistinguibile se non per il modo di operare fa l'effetto delle armate nate dalle guerre popolari e partigiane, in cui ufficiali e soldati sono indistinguibili, se non per quel che fanno. Ho accennato a una grande rivoluzione e credo che questo sia l'aspetto più clamoroso, insospettato e vagamente occultato della ripresa Fiat sui mercati esteri (quello italiano seguita ad andare male, sia nel settore automobili che dei mezzi pesanti). E la rivoluzione consiste in questo: l'essere umano è stato in gran parte affrancato dalla fatica (e «fatica», come il travaglio di travail, è la parola meridionale per dire lavoro), il cui peso è stato affidato alle macchine, specialmente dei robot. Ma, attenzione: i robot sono l'esito di un passo falso, esattamente come accade nella catena dell'evoluzione biologica, che è una sequenza di tentativi, errori e correzioni. I robot furono in un certo senso la risposta alla conflittualità in fabbrica e alle frange terroristiche. Ma i robot non sostituiscono l'uomo: ne possono ripetere infinitamente il gesto, in modo stupido e veloce. L'esperimento di Cassino, con uno stabilimento tutto robotizzato dimostrò l'errore. Ma quell'errore è stato capitalizzato. I giapponesi sono stati tra i primi a capire l'importanza insostituibile della centralità umana nel fare e fabbricare. Tuttavia è stata la Fiat a congiungere il vecchio errore robotico con l'intuizione giapponese. E il risultato consiste nella «rivoluzione»: il vecchio operaio non è più un'appendice passiva e infuriata della macchina, ma è il suo tutore e controllore. Sotto i teli notturni di Parigi si vedeva l'esito di questo processo di cui la «Punto» è il simbolo: uno sforzo nel disegno, nello slancio di pensare cose nuove, nei particolari, nei colori e nella vitalità. Un tempo sarebbe bastato, per ottenere almeno in parte un tale risultato, il lavoro di qualche grande designer. Ma oggi non basterebbe più. Cantarella ti guarda e dice: «L'automobile? Eh, l'automobile...». Poi spiega sottovoce quello che dev'essere un segreto: «Si tratta di un prodotto altamente tecnico ma altamente emozionale». Luis Caperan, un bretone guascone che è da poco tempo il capo della Fiat in Francia (primo di una serie di manager stranieri che la fabbrica torinese ha catturato), va in giro attorno a noi calpestando le plastiche del Salone, e parlando d'automobili sembra lui il più sciovinista, il più italiano. Paolo Cantarella ridacchia nel suo grande impermeabile: «Per forza, come dico sempre, è la passione che ci guida. Poi, sa, non è per fare anche noi del nazionalismo, ma questi famosi "van" che adesso tutti sbandierano, li abbiamo inventati noi, mica loro. Dica: se la ricorda la seicento multipla?». Paolo frizzanti Ora impiegali* opera* e ingegneri indossano tutti la stessa tuta «La sfida è tecnologica» L'altra faccia della medaglia sono i «colletti bianchi» e i quadri esclusi dal processo produttivo AUTUNNO '94 la ripresa e le paure :-ri4 ^ »>jf ! jpl > La Stampa inizia oggi un viaggio-inchiesta nella ripresa e nelle paure dell'autunno '94. Tre i temi: «Viaggio nella nuova Fiat», «Il vento del Nord Est» e la «Fabbrica delle idee». Nella foto in alto una catena di montaggio automobilistica A sinistra operai Fiat che entrano in fabbrica A destra Paolo Cantarella amministratore delegato Fiat Auto