Il lungo sonno del Rais sognando la rivincita di Giuseppe Zaccaria

Il lungo sonno del Rais sognando la rivincita Il lungo sonno del Rais sognando la rivincita VENDETTA NEL GOLFO ARTEDI' 18 gennaio i giornali di tutto il mondo «aprirono» sul terremoto di Los Angeles: pagine e pagine con foto di autostrade crollate, analisi degli «anchormen» sulla metropoli di carta, considerazioni sulla fragilità di un sistema, quello californiano, concepito in attesa del Grande Botto. Figuratevi se c'erano spazio e voglia di raccontare quanto, in quelle stesse ore, stava accadendo in una città che al Grande Botto era sopravvissuta, ossia Baghdad. Eppure anche lì ne accadevano, di cose. Per chi l'avesse dimenticato, il 17 gennaio oltre che (da quel momento in poi) anniversario del terremoto di Los Angeles è anche (da quattro anni) ricorrenza, per nulla felice, del bombardamento con cui l'alleanza mondiale diede inizio alla dura punizione di Saddam Hussein. Meglio, dell'Iraq. Ebbene, il 17 gennaio scorso a marciare lungo i moderni boulevards di Baghdad c'erano quasi trentamila persone. Non accadeva dai giorni della guerra. Secondo la tv irachena, urlando e sparacchiando in aria quella gente commemorava «l'inizio della grande vittoria» (la vittoria di Saddam, naturalmente). Nei resoconti della televisione giordana e di quelle degli Emirati, gli scalmanati premevano invece perché le Nazioni Unite ponessero fine al lungo «embargo». Nessuno, credo, sottolineò come in quel caso finzione e bisogni reali finissero col saldarsi. Adesso, dopo il lungo silenzio, le «manovre militari» ai confini col Kuwait ripropongono brutalmente tutte le questioni lasciate aperte da una guerra incompiuta. Come ;n un'operazione di pulizia interrotta a metà, Saddam Hussein era stato lasciato al suo posto per evitare che un Iraq sconfitto, o peggio diviso, desse il via a un terremoto questo sì catastrofico negli equilibri della regione. A Nord (l'area a più alta redditività petrolifera) premevano i curdi, da Sud l'onda sciita minacciava un'avanzata che avrebbe sospinto gli ayatollah fino all'Eufrate, nel cuore di quella che era stata la più «occidentale» fra le potenze del Medio Oriente. L'intervento, dunque, fu fermato proprio quando stava per spazzare via il «Rais» e la sua corte sanguinaria. E questa è storia di ieri. Interpretazioni più recenti, ancora in attesa di conferme, vogliono che la fine delle ostilità sia coincisa con la distruzione dell'arsenale atomico che il «Rais» era comunque riuscito a costituire. Quali che siano stati i segreti motivi, sta di fatto che alla vigilia del quarto anniversario del bombardamento di Baghdad il «Rais» è ancora lì, più saldo che mai. La misteriosa politica dell'Occidente gli ha consentito non solo di continuare a coltivare le paranoie, atteggiandosi a vero vincitore (è o no il solo leader arabo della storia che sia riuscito a resistere alle forze armate di tutto il mondo?) ma soprattutto di rendere sempre più evidente una saldatura. Quella fra la sua persona e la disperazione del suo popolo. Questo, è accaduto nell'Iraq degli ultimi quattro anni: l'«embargo» decretato quando il «Desert Storm» aveva appena smesso di imperversare è rimasto in vigore come se la tempesta dovesse tornare ad alzarsi da un momento all'altro. Oltre ai voli interni, oltre alle attività militari, le Nazioni Unite hanno bloccato anche la principale fonte di ricchezza del Paese, ossia la produzione petrolifera: e stranamente, il divieto ha funzionato solo in quest'ultimo campo. Quanto al resto - soprattutto se si parla di attività militari nell'Iraq meridionale - il regime è stato lasciato piuttosto libero di agire. Nell'ottobre scorso numerose e autorevoli fonti hanno riferirono di attacchi massicci della Guardia Repubblicana contro i villaggi sciiti. Emma Nicholson, una deputata del partito conservatore britannico, riferì testimonianze che parlavano di centinaia di morti nell'area di Kharbala e Najaf, e di «nubi bianche sulle case» che facevano pensare al terribile gas nervino, lo stesso usato dagli iracheni contro i curdi del Nord. Altri periodici sussulti sono stati registrati all'estremo confine meridionale. Quello del Kuwait, la «diciannovesima provincia» che ufficialmente Baghdad non ha mai smesso di rivendicare. Sparatorie di poco conto, con una sola eccezione: due mesi fa, il quattordici di agosto, un «casco blu» bengalese rimase ucciso a Safwan. Gli iracheni giustificarono l'attacco - perché di attacco di trattava - come «sparatoria provocata da una banda di trafficanti». Adesso, pensare che due divisioni di trafficanti si stiano diri¬ gendo verso i confini del Kuwait parrebbe eccessivo. Anzi, particolarmente allarmante è il fatto che a guidare le due unità siano reparti della Guardia Repubblicana, l'esercito dei fedelissimi. Durante la guerra Saddam Hussein l'aveva ritirato dalla prima linea, abbandonando il resto delle forze armate al disastro, proprio per poter contare anche dopo su questo corpo d'elite. Si prepara una nuova invasione? Sembra improbabile: sicuramente, però, si avvicinano altri momenti pericolosi. Dosando abilmente protervia e finte disponibilità, il «Rais» continua a tenere l'Occidente in sospeso, e nei fatti non acconsente a smantellare del tutto i propri arsenali militari. Dall'altra parte, le Nazioni Unite gli consentono di usare parte di questi arsenali, purché si rivolgano verso Sud, e stringono le maglie di un «embargo» che conduce il Paese alla fame. In questo quadro, non è poi così paradossale che un tiranno sconfitto si ritrovi con un potere interno più saldo che mai. L'ultimo tentativo di «golpe» risale al settembre dell'anno scorso. Saddam ha fatto fucilare duecento ufficiali, e nominato ministri un altro gruppo di cugini e cognati. Giuseppe Zaccaria Un segnale non colto dall'Occidente il corteo di 30 mila fedelissimi per l'anniversario del bombardamento della capitale Saddam Hussein diede il via al blitz in Kuwait nella notte del 2 agosto '90

Persone citate: Emma Nicholson, Saddam Hussein, Storm