La POESIA MANIFESTA

La POESIA MANIFESTA La POESIA MANIFESTA Oggi il << commandos in Santa Cn DFIRENZE OPO tutte le effrazioni e tutti i disincanti, i poeti tornano a parlare di bellezza e d'anima. Professando l'eterna liturgia del mito, addirittura proclamano una nuova jihad, una guerra santa (o di Troia) «contro il dominio del pensiero analitico, dell'utilitarismo illuministico, della tecnica asservita alla ragione economica». Così scrive Giuseppe Conte in un suo manifesto intitolato La nascita delle Grazie. Come un antico guerriero Conte è spuntato dagli ulivi asciutti e discreti della sua Liguria di ponente e si è fatto promotore di un'iniziativa volutamente indiscreta. E' diventato il capitano di un «commando eroico» per fare un blitz di poesia in Santa Croce. Tra i tanti luoghi possibili ipotizzati in agosto quand'è stata data la notizia, Tuttolibri aveva centrato il bersaglio. Non una kermesse, ma una levata d'armi e di scudi, non una discoteca beat di qualche Roma promiscua o una spiaggia desolata di qualche Castel Porziano nazionale. Non siamo più né all'inizio né alla fine degli Anni Settanta. Il commando agisce oggi, 1° ottobre, a Firenze, tra i marmi del pantheon più illustre, che anche gli studenti riottosi non mancano mai di ricordare. A quali princìpi fondamentali s'ispira la chiamata odierna? Elementari come un manuale di battaglia. La poesia è possibile. La poesia è trasformazione etica del mondo attraverso la bellezza. La poesia ha un fondamento mitico. Ma contro quali nemici combattono i nuovi combattenti? Contro quelli di sempre e contro quelli dell'ultima ora, ina con più decisione che mai. La perdita del sacro, del mito, il neorealismo, la neoavanguardia, «povere cose» scrive ancora Conte. Il primo richiamo va al Foscolo, ai suoi marmi civicamente invitanti all'alto sentire. E' il poeta forse meglio conservato della scuola italiana. Più imprescindibile di Dante, più studiato del Petrarca, certo più amato dell'Alfieri, il quale in verità fu il primo a dire forte il suo impegno poetico libertario. Alfieri, petrarchista sui generis, sosteneva ispirato: «Poeta è nome che diverso suona», e chiudeva perentorio il manifesto di un ruolo sacro: «ma prezzar quelli, che il furor natio, / sforza a dir carmi a Verità devoti, / non l'osi, no, chi non è Vate, o Iddio». Vate e Verità in maiuscolo perché appartengono alla stessa sostanza divina. Alfieri parla come sempre per se stesso, il sacro vate di Apollo è lui. La parola e il ruolo hanno poi seguito una loro china scivolosa. Sull'onda indigena del milanese Caffé, il giornale dei Verri e di Beccaria, hanno trovato collocazione moderata nel Romanticismo pedagogico e pragmatico del Conciliatore: dal Berchet al Romagnosi, dal Visconti al Breme. Tutti poco disposti a indossare vesti sacerdotali. Molto più hanno corrisposto all'aspro giacobinismo del Carducci pronto a combattere la buona battaglia democratico-libertaria nel suo libro-manifesto dei Giambi ed Epodi. Ma l'idea fece presto a convertirsi in varianti sospette e mentre Pascoli scrive II fanciullino, il suo manifesto più concertato e simbolista, D'Annunzio autopromuove una metamorfosi che fa di lui, come dirà Dino Campana, un «Vate grammofono». Anche Conte può ammettere che nell'ingiuria ci sia del vero, tant'è che il suo recupero dell'autore di Maia passa attraverso il giusto correttivo del dolore e della pietà. Fa una bella differenza. I manifesti del Novecento nascono con voce nuova. Rumorosi e modernisti quelli del Futurismo, dimissionari e ironici quelli crepuscolari. Gozzano che degrada l'alloro poetico in «ramo di ciliegie» (ancora Montale dirà che un «lauro risecchito non dà foglie / neppure per l'arrosto»). Corazzini che si schermisce nel famoso incipit della sua desolazione sentimentale: «Perché tu mi dici: poeta?». Moretti che mette il poeta su una giostra per farlo sembrare «il pagliaccio che egli è» e naturalmente Palazzeschi che fa spallucce al dolore («e lasciatemi divertire!»), sgattaiolando tra le maglie di un movimento e di una scuola, imprendibile e dispettoso, civile solo malgré lui. Tutti manifesti della crisi o della negatività. Ma intanto si fa strada quell'assoluto della poesia che basta a se stesso. Un passo avanti e due indietro? Pur nella diversissima varietà degli esiti, dopo Campana o dopo Onofri, basta il manifesto che Saba si vede rifiutare dal gruppo della «Voce» a interpretare la necessità etica del nuovo: Quel che resta da fare ai poeti. Ai poeti - dice Saba - resta da fare la «poesia onesta». Come manifesto potrà anche apparire generico, ma è chiaro. In compenso sulla «Voce» apparirà presto un effimero manifesto-preghiera vergato dalla mano di Soffici: Dacci oggi la no¬ stra poesia quotidiana. Anche se ciò che spicca in ambito vociano, da Jahier a Rebora a Sbarbaro, è piuttosto la serietà spietata di un impegno che sonda il rigore necessario del vivere e tocca ai manifesti di un altro ligure Boine dire tutta la pienezza «aggrovigliata e commossa» di un «caos in travaglio». Nulla dunque di più lontano dalla poesia come gioco, a cui del resto, sta per opporre tutta la sua resistenza la pattuglia ermetica, comunque la si voglia giudicare. Un manifesto anche qui. Si tratta dell'mtervento di Carlo Bo, Letteratura come vita, che sembra appunto contenere, secondo le parole di Gianfranco Contini, il programma del cosiddetto ermetismo. «Firenze era allora la città letterariamente più viva d'Italia», ricorda Mario Luzi. Da Foscolo a Luzi a Conte. L'appuntamento di oggi congiunge le tappe di un passato ideale. 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Luoghi citati: Breme, Firenze, Italia, Liguria, Roma