CAMERA OSCURA PER LEOPARDI

CAMERA OSCURA PER LEOPARDI CAMERA OSCURA PER LEOPARDI / Canti sotto la lente di Colaiacomo V1 ORREI segnalare un libro straordinario, fra i più belli, tesi, innovativi, salutarmente «difficili» che io abbia letto negli ultimi anni. Si tratta di Camera obsciira. Studio di due canti leopardiani, che Claudio Colaiacomo stampa presso Liguori (pp. 160, L. 20.000). Dal tempo in cui comparve il commento di Giuseppe De Robertis ai Canti (integrato successivamente da suo figlio Domenico: Le Mounier 1978; ne esiste anche un'edizione negli «Oscar-Studio» Mondadori, 19861 non avveniva di leggere pagine così acute sul nostro più grande poeta moderno, e soprattutto sul fulmineo, definitivo «cristallizzarsi di un pensiero» nella forma del testo poetico, dopo le fasi successive di sedimentazioni, di variazioni, che gli autografi ci consentono di apprezzare. Il libro, che nella sua scarna misura offre un magnifico esempio di lectura leopardiana con puntuale commento, passo dopo passo, delle due liriche, andrà assaporato nei dettagli, qui davvero non riassumibili (difficile parafrasare Colaiacomo, critico con un suo stile: occorre citarlo). Ma la sua importanza esige anche che si cerchino, per capir meglio, alcuni dei suoi antefatti, dei probabili ispiratori vicini e lontani. Nel 1947, dialogando proprio con Giuseppe De Robertis, che l'anno precedente aveva pubblicato uno studio Sull'autografo del canto «A Sihna», Gianfranco Contini aveva fissato, in Implicazioni leopardiane, il criterio di analisi degli «spostamenti in un sistema», altrimenti detto del sistema di «compensi» («contigui» o «a distanza») mediante i quali la fatica correttoria mirava, nella metamorfosi del testo, a conservare «l'intrico di rapporti memoriali», lungo la sequenza di accostamento all'idea. O, per dirla nel lessico inimitabile di Contini, la perenne «approssimazione al valore», la progrediente «approssimazione associativa [...] all'oggetto mentale». Si precisava così, dopo lo studio giovanile sulle tre redazioni del Furioso [Come lavorava l'Ariosto, 1937) e l'altro sulle Correzioni del Petrarca volgare (1943) il progetto di una aitica delle varianti capace di render conto, quale «mediatrice fra poesia e grammatica», delle dislocazioni energetiche, della chimica (o fisica) delle metamorfosi di struttura (e di tensioni) legate al mutevole farsi parola dell'idea, e dell'immagine. Seguirono poi, sulla stessa linea problematica, ma con l'ampliamento ad orizzonti sempre più vasti, le ricerche sulle paperoles proustiane (1947) e su Jean Santeuil (1953), e quella Sulla trasfonnazione. dell'Après-midi d'un Faune (1948). E ancora nel 1960, introducendo ai Poeti del Duecento, Contini temi a ribadire che la cultura è «un sistema di relazioni, che è colpito dalla variazione delle posizioni singole». Con quei primi, intelligentissimi sforzi di Contini il metodo strutturalistico entrava per la prima volta in Italia, adeguatamente temperato dall'etica filologica, e in sostanza storicistica, che impone il rispetto dell'ultima volontà di testo manifestata dall'autore. Ma non dovrebbe neppure sfuggire (come credo finora sia sempre avvenuto: e la cosa meriterà approfondimento, in altra sede) che le stesse idee erano state forgiate, nel suo privato laboratorio ingegneresco, da un grande amico e sodale di Contini, Carlo Emilio Gadda: il quale fin dal 1920, in quei quaderni «filosofici» della Meditazione milanese che avrebbero visto la luce solo nel 1974, per cura di Giancarlo Roscioni, andava riflettendo (cartesianamente e leibnizianamente) proprio sull'etica di ogni metodo gnoseologico, e sul reale come complesso sistema di relazioni, come infinita totalità di rapporti entro cui si enucleano sistemi di sistemi... Dunque, Colaiacomo è persuaso (e persuade noi) che studiando il lavorio testuale, ad esempio sugli autografi leopardiani delVInjinito e della Sera del di di festa, si riesca a individuare il tracciato sedimentario di idee, immagini, parole che precedono il testo definitivo: insomma le cicatrici dell'invenzione poetica. Lo scopo è cogliere «la radice unitaria di attività diverse del pensiero, di quella poetica, di quella filosofica, di quella scientifica, nel loro precipitare verso la propria riapparizione come una forma». Quindi non si tratterà solo di riconoscere (come fece Antonio Prete con il notevole // pensiero poetati te, Feltrinelli 1980) un valore filosofico alla scrittura di Leopardi: bensì di dimostrare la solidarietà originaria, appunto radicale, di tutte le manifestazioni di quel pensiero, rinunciando ad esempio alla convenzione per cui lo Zibaldone sarebbe una «raccolta di materiali grezzi che aspettino una sistemazione da parte nostra», mentre nei Canti si fisserebbe la limpida elaborazione lirica delle idee depositate in quelle pagine frante e discontinue. Lo Zibaldone è invece correttamente, per Colaiacomo, «un luogo di tensioni del pensiero», «lo scavo teorico di un paradosso (...) inscritto in una ricerca poetica, o meglio in una tensione alla scrittura». Solamente qui «esso trova la sua verità». Sottoposto a questa tensione il pensiero si accumula lentamente, nello Zibaldone, aumentando la propria energia, che si condenserà tutta .precipitando d'improvviso nel cristallo del testo: pronta ad illuminarsi nell'incontro con l'interprete capace di riportare alla luce tutte le relazioni del sistema di sensi profondi. L'esegesi, nel lavoro di microchirurgia di Colaiacomo, consiste nell'ardua risalita lungo quella che egli stesso definisce «una diacronia del sublime», fino al risarcimento della frattura che separa il prima dal dopo di quell'epocale cristallizzazione del pensiero poetico. Sulle prime, mentre l'idea si chiarisce in immagine, uscendo dall'oscurità originaria, si coglie solo il magmatico «lungo, incerto mormorar» con cui il poeta accumula pensiero liquidamente, oscuramente, ma già tendendo «alla determinazione o alla chiarezza». Poi, d'un balzo, s'individua quello che De Robertis chiamava, a proposito di A Silvia, «un segno arcano da decifrare». In quest'attimo convergono tutte le minuzie testuali raccolte pazientemente (direi con la lenta filologia che Nietzsche nella prefazione di ( l'iacoiuu LcojHirdi Aurora invocava dal suo lettore ideale per i propri libri) e prende figura «l'immagine del loro saltare in un unico punto di vista, in rapporto al quale esse riappaiono come l'insieme vivente di un'articolazione mentale o di una forma». Ed è a quest'altezza, nel luogo che sintetizza la derobertisiana «sostanza prima di divini frammenti», che l'esegesi replica l'attimo creativo e l'interprete sprofonda nel medesimo abisso in cui era saltato il poeta (o, se si vuole, il «pensiero poetante»), discernendo d'attimo in cui un processo mentale precipita in parola ovvero appare al proprio stesso soggetto come un precipitato verbale, come una leggibilità, dunque, una scrittura. Dunque, l'attimo in cui un soggetto pensante si scopre sdoppiato in lettore di se stesso: tale lettura appare indistricabilmente confusa con un grado primario dell'esperienza». Il salto con cui la parola lirica si istituisce è quindi, per Colaiacomo, l'istante e l'evento mediante il quale la coscienza «si trova di fronte all'immagine del proprio stesso venir meno», sull'orlo del vuoto ove l'opera d'arte, dopo il lungo lavorio elaborativo, si cristallizza in un lampo, assumendo la sua fonila unica e non più mutevole che dietro di sé sembra lasciare il deserto, quasi fosse eterna, senza storia, fuori del tempo. E' evidente la distanza di questo punto di vista rispetto alle posizioni crociana o continiana. Colaiacomo si cura dell'evoluzione variantistica solo per quanto essa è utile a dar conto, appunto, del «lungo, incerto mormorar», convinto che i lesti esaminati «come immagini del cristallizzarsi di un pensiero» non si spiegano attraverso la loro vicenda genetica, rispetto alla quale il salto chiarificante l'intero siste¬ ma di relazioni, come l'illuminazione di una sinapsi, è incommensurabile (sfugge alle leggi intrinseche al sistema stesso). E tuttavia non si colloca dinanzi all'opera conclusa per ammirarne l'espressione in cui «si oggettiva l'intuizione o rappresentazione»; non gli interessa, come a Croce, l'opera in quanto dato, fatto, traccia di un evento irrecuperabile. Il luogo ove pone il suo osservatorio è il bordo del salto, il confine subito prima che l'opera sia conclusa: ovvero il momento del farsi testo, il baleno che porta alla luce le ombre non chiarite (la metafora fotografica sottesa al discorso a questo punto si fa esplicita). Questo «tempo ottimale», questa «intercapedine temporale che separa l'avvento del determinato dalla formazione della sua immagine» è il tempo del salto. L'interprete riproduce quell'attimo allorché coglie, nel testo, il riprendersi dell'/o, che riesce a «tornare al punto o a se stesso», a «riconoscersi». La «dialettica del riconoscimento» è nel testo (così nella Sera del dì di festa) dinamica nella memoria, per cui «una situazione antica, riaffiorando, ha preso, per un attimo, il posto di quella presente, prima di essere riconosciuta come antica e simile a quella presente». E questa memoria «è proprio una voce, rispetto alla quale l'Io viene a trovarsi in posizione di ascoltatore, quasi come se essa non provenisse da lui stesso». L'improvviso farsi presente di questa voce, della voce del testo, concretizza in immagine il pensiero, lo induce al risveglio. Così, nel pensiero di Walter Benjamin (di cui pure, infatti, Colaiacomo è esegeta acutissimo), il salto della comprensione è figurato da Proust nel risveglio. Il risveglio genera il recupero degli elementi onirici, macerie, rovine, minuzie dell'immagine dialettica mediante la quale l'Io si riprende, e grazie al suo soprassalto (qui parla di nuovo Colaiacomo) «rivede immediatamente l'indeterminato della ricordanza venir sopravanzato o superato dall'apparizione di una temporalità determinata, cioè di un passato non più sovrapposto al presente, ma distinto da esso e con esso comparabile». Questo, in fondo, intendeva Benjamin nei frammenti mirabili di Parigi, capitale del XIX secolo, libro incompiuto di puro genio, quando scriveva che «L'indice storico delle immagini dice (...) non solo che esse appartengono ad un'epoca determmata, ma soprattutto che esse giungono a leggibilità solo in un'epoca determinata. E precisamente questo giungere a leggibilità è un determinato punto critico del loro intimo movimento (...). Non è che il passato getti la sua luce sul presente o il presente la sua luce sul passato, ma immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l'ora (Jetzt) in una costellazione. In altre parole: immagine è la dialettica nell'immobilità». Come nella camera obscura in cui il poeta vede l'idea prender forma in immagine, e lotta per conquistare la chiarezza, per far divenire chiaro il gioco di luci ed ombre mediante il quale l'immaginario si tematizza e ogni tema si dissolve nelle immagini: così, nella seconda camera obscura in cui ogni testo può «giungere a leggibilità», l'interprete, alla lettera, sviluppa le immagini del testo, le fissa fulmineamente, rendendole infine «leggibili». «Tendono alla chiarità le cose oscure, / si esauriscono i corpi in fluire di tinte...»: chi non rammenta i versi di Montale, metafora perfetta, fra l'altro, dell'atto creativo? Anche Andrea Zanzotto, e come lui altri scrittori, ha pagine splendide intorno a questo evento incontrollabile e balenante, lo sgorgare della lingua «che monta come il latte» (Maria Corti gli ha dedicato l'intero capitolo I, Le sabbie mobili della «Fantastica», nei suoi Percorsi dell'invenzione, Einaudi 1993). Peccato che Leopardi, morto nel 1837, non abbia fatto in tempo a vedere le prime conquiste della fotografia, ottenute da Louis Daguerre nel '39. Ne rimase affascinato invece Giuseppe Gioachino Belli, che alla diffusione dei dagueirotypes, osannata da campagne di stampa entusiastica, dedicò molte pagine del suo privato Zibaldone. Ma Belli, il provinciale Belli, il dialettale Belli, non avrebbe mai avuto la forza etica per divenire ciò che Leopardi, invece, avrebbe potuto essere: ossia, nel tempo di Daguerre, quell'antro pologo della cultura visuale che Baudelaire sarebbe diventato alcuni decenni più tardi, nel tempo di Nadar... Corrado Bologna

Luoghi citati: Italia, Parigi