Alice e il cappellaio di Stefano Bartezzaghi

Alice e il cappellaio Alice e il cappellaio Da Don Chisciotte a Boll ecco perché ci seducono IN uno dei Racconti umoristici e satirici di Heinrich Boll, una anziana zia svitata si sveglia la mattina di Santo Stefano, credendo fermamente che sia ancora Natale. Tutti i parenti, sorpresi, si prestano a fingere che abbia ragione, e rifanno cenone, regali e cerimonie. Ma il giorno dopo la zia non cambia idea, e la follia del Natale a ogni giorno si prolunga indefinitamente. Il tempo che si ferma caratterizza un altro picchiato letterario, il Cappellaio Matto di Alice nel paese delle Meraviglie. «Matto come un cappellaio», si diceva all'epoca in cui il feltro dei cappelli veniva trattato con mercurio; il mercurio avvelenava il cappellaio dandogli tremiti e progressivi segni di allucinazione e follia. La pazzia del Cappellaio di Alice, nella fattispecie, è una pazzia paradossale e addolorata. Ha litigato con il Tempo, il Tempo ha cessato di scorrere per lui («non vuol fare più nulla di quello che gli chiedo!»), e il Cappellaio ora vive sempre all'ora del tè. La follia può dunque essere una macchina del tempo: fermarlo o spostarlo, come nelle vignette in cui i matti si credono Napoleone, o come nel Don Chisciotte. «Se sono pazzo, per me va benissimo»: con queste parole si presenta l'Herzog di Saul Bellow, impegnato nei suoi carteggi con Friedrich Nietzsche e altri illustri defunti. Chiuso nella torre dove avrebbe passato gli ultimi trentasette anni di vita lo schizofrenico Friedrich Hòlderlin si attribuiva i nomi di Skardanelli, Scardanelli, Scarivari, Scaliger Rosa, Salvator Rosa, Herr Rossetti, Buonarotti, Buarotti, Killalusimeno. Hòlderlin, che è vissuto fra il 1770 e il 1843, apponeva alle sue ultime poesie date assurde: 3 marzo 1648, 24 maggio 1748, 24 aprile 1849. Ce n'è anche una del 9 maggio 1940. Squinternati e mattoidi, fuori di testa e fuori dal tempo, i poeti, i cappellai e le zie ci muovono spesso al sorriso. La loro cortesia è inusuale: lo stesso Hòlderlin si rivolgeva agli interlocutori con appellativi di fantastica deferenza: «Vostra Altezza, Vostra Grazia, Vostra Maestà...». Gli chiedevano se volesse uscire a fare una passeggiata, e rispondeva «Lei comanda che io rimanga qui». Faceva leggere una poesia appena scritta per un amico, e gli diceva: «Si degna, Vostra Santità?». La santità, più spesso, è loro. Saulo viene chiamato da una voce sulla strada di Damasco, Paolo scriverà ai Corinzi: «Io parlo da folle perché lo sono più di ogni altro». Nella Grecia dell'età arcaica, Apollo comunica¬ va agli uomini attraverso la mania del sacerdote; la follia si faceva così fonte della sapienza. La voce circola, e l'invasato ne è stetoscopio e megafono. Tendere l'orecchio ai bisbigli, assordare di urla è poi diventata prerogativa di tutti i matti: per esempio quelli felliniani. Ciccio Ingrassia grida dall'albero in Amarcord, Roberto Benigni ausculta i pozzi nella Voce della luna (tratto dal Poema dei lunatici, romanzo costruito da Ermanno Cavazzoni su materiali dell'archivio del manicomio di Reggio Emilia). Ma la voce di Apollo, passando dai crateri delle Sibille ai pozzi padani, si è perduta. Nei motti dei pazzi, nelle loro astruse verbigerazioni qualche volta ci pare ancora di cogliere l'immagine rovesciata di una ragione critica. Sono i mondi alla rovescia, il Medioevo fantastico, i mostriciattoli bizzarri di Bosch, gli scemi del villaggio come il Turlulù di Italo Calvino. Ma sono anche gli incubi della ragione di Goya, gli abissi visionari, lo strattone di una memoria oscurata («... attraverso gli spazi del buio / la mezzanotte scuote la memoria / come un pazzo scuote un geranio appassito», T. S. Eliot). Secondo il Foucault della Nascita della follia l'originario contenuto tragico e apocalittico della follia ha incontrato la riduzione critica della ragione alla fine del Medioevo. E' lì che lo scenario culturale si popola di elogi della follia saggia, che coglie e disegna il limite della ragione, contro la follia folle, di chi crede a una ragione senza limiti. E forse è da questa riduzione che viene la simpatia per i matti per sopravvivere, la tragicità della follia adotta l'espediente dell'arguzia. Un'ovvietà è un'ovvietà: ma se è detta da Chance, il giardiniere scemo interpretato da Peter Sellers, diventa un profondo aforisma, una battuta che affascina i politici e gli spettatori della televisione. Il matto seduce tutti. E' sicuramente fortuito, ma in italiano, la parola/òZZe ha un destino faticosamente duplice. Come plurale, è l'idea stessa della Pluralità: le folle, cioè le masse. Come singolare, è l'idea stessa di Singolarità: il folle, cioè il matto. Questo rapporto fra massa e follia ha più di un risvolto. Ricordando la follia di Daniel Paul Schreber (ex presidente del Senato di Dresda, poi internato per una profonda sindrome paranoica), Elias Canetti ha detto: «Nessuno ha l'occhio acuto per le qualità della massa più del paranoico o del potente: due parole che significano la stessa cosa». Stefano Bartezzaghi

Luoghi citati: Dresda, Grecia, Reggio Emilia