La profezia della maga yiddish

Roma dedica una mostra alla grande scultrice americana di origine ebraico-russa Roma dedica una mostra alla grande scultrice americana di origine ebraico-russa La profezia della maga yiddish Nevelson, capolavori per ritrovare il padre ROMA I ' HE cosa fare di una bambina che, a soli nove anni, inI i terrogata dalla sollecita biyj I bliotecaria bigotta di un paesino yankee, che per convenzione vuole mielosamente sapere che cosa farà da grande quella piccola lettrice, risponde, come travolta da un'onda automatica, da una trance inconscia, che l'impaura e la fa fuggire in lagrime dopo quella profezia che nemmeno sa decifrare: «Io sarò un'artista. Anzi, voglio diventare uno scultore, non voglio che il colore mi aiuti». Che fare? Attendere per lo meno che diventi Louise Nevelson, la grandissima scultrice americana di origine ebraico-russa (emigrata con i suoi genitori, il padre è un taglialegna, da Kiev al New England, onde fuggire i tragici pogrom del 1881) cui Roma dedica una corposa mostra al Palazzo delle Esposizioni (peccato manchino le sue tele sconosciute, le incisioni). C'è molto della tempra della Nevelson, in quella precoce sibillina profezia: quella volontà nicciana di diventare fortemente quello che si è, un'isolata («emarginata», suggerisce lei, insistendo sul suo connaturato idioma yiddish), un'anticonformista artista d'avanguardia e di ribellione, tra rifiuti, autentica miseria, abbandoni e crisi depressive; e soprattutto quella caparbietà poco femminea di voler «fare» senza l'ausilio del colore, dell'«atmosfera» preparata. Lavorando con elementi primari, di scarto, tornando magari alla materia psicoanalitica, (materna» del genitore-falegname, quel legno cedevole e malleabile eppure così pregno e sacrale, totemico, a contrasto con il ferro sterile ed obiettivo, l'acciaio modem style sfruttato dai suoi contemporanei. Con il suo candore coltissimo, soltanto apparente, la Nevelson è una meravigliosa esegeta di sé. «Persone diverse hanno ricordi diversi. Qualcuno ha memoria per le parole, qualcuno per le azioni, la mia sembra essere per la forma. Fondamentalmente, la mia memoria è per il legno, una forma non troppo dura né troppo morbida (...) che ha a che fare con la femminilità. Mi sono rivolta automaticamente al legno, volevo un materiale che fosse immediato. Per me penso sia la sostanza e la vitalità... Quando lavoro con il legno, ha una sua vita propria. Se questo legno non fosse vivo, si disintegrerebbe, sarebbe polvere». Eccola, l'origine semplice, «istintuale» di quelle sue meravigliose scatole nere che trattengono gesti, memorie, forse anche messaggi, ma soprattutto generano, articolano sentimenti, impressioni, affetti che si fanno materia, legno, spazialità: monumenti alla propria semplice, immensa, tormentata storia domestica. Rischioso inventare mostruose trappole ermeneutiche: non sono che ricami geniali e macroscopici, inni sacrali all'inutile, al nulla estetico, trouvailles formidabili e sofisticate, che trattengono nelle loro viscere l'intelligenza benedetta di un'intiera esistenza creativa. E ripetiamo coscientemente il verbo «trattenere», proprio perché quel nero incerato, penitenziale, ma an¬ che festoso, aristocratico racconta essenzialmente quello sforzo estremo, da divino bricolage, affinché la vanitas del quotidiano fermato in una zampa di sedia o in un modanatura da vaporosa stanza di bagno - non si sfaldi in polvere eterna, cimiteriale, non si decomponga in chiacchiericcio pettegolo-ecclesiastico. I solidificati ricordi di legno di Louise Berliawsky, l'eccentrica dama doc/iard-aristocratica, che sposò il fastoso magnate Nevelson per presto abbandonarlo, la nobildonna (delle rotelline di pioppo e dei pioli torniti) dalla bellezza inventata, rugosa e ^ dipinta di un E- |P dith Sitwell o di Diana Vreeland, la Baronessa Blixen dei Totem newyorchesi, l'amica di Duchamp e di Frida Kahlo, che andava a lezione di teatro dalla principessa Matchabelli, l'allieva di Reinhardt, e che si lasciava corteggiare da Celine sulla tolda di un transatlantico, l'amica di Martha Graham che delirava per la quarta dimensione e danzava una sua surreale, pesantissima danza di legno. «Sentivo che una disciplina corporea era essenziale per una creazione armoniosa e mi aiutava a risolvere problemi plastici, dato che li vedo come fatti di un'alternanza di equilibrio e tensione». Pesantis" sima, monumentale levità (in questo la Nevelson è allieva della grande plastica primitiva maya e indo-americana, che andò a scoprire in Yucatan, per curare le sue ricchissime miserie depressive). «La danza mi fece realizzare che l'aria è un solido che si attraversa, non un vuoto in cui si esiste». L'affollata trafficata presenza solida dell'assenza, del vuoto: quasi lo sky line urbano della sua bruciante passione artistica. «Merletti» lignei. E' il suo originale cubismo tridimensionale, picassismo delle frattaglie, a mezzo fra geometria e magia: «Il cubismo ti dà un blocco di spazio per la luce». La luce, e l'impero notturno delle ombre, di. cui lei si fa Regina, Architetto: «Era una sorte di appagamento del desiderio, una transazione verso il matrimonio con il mondo». «L'ombra, come qualsiasi altra cosa sulla terra, in realtà si muove. Movimento che è nel colore, che è nella forma, in tutto. L'ombra sta fluttuando... e io la blocco, le dò sostanza solida». Attraverso quel suo cubismo affettuoso, che «trasferisce la Natura in strutture». Se Kurt Schwitters, con il suo Merzbau aveva costruito un continuo ininterrotto, un «serpente» d'appartamento che invadeva tre piani d'abitazione, la strega Nevelson preferisce sfornare i suoi cakes torniti e «celibi» alla Lewis Carroll, eventi isolati e ritagliati, in omaggio forse agli scatolini magici di Cornell. Elettrodomestici preistorici ed irrazionali, juke box primordiali e dispensatori di Silent Music, carburatori mentali senza miscela, marchingegni sentimentali e folli con budella di legno, trippe di sventrati pianoforti lunari tra resti di cene guardate da un alto poco celeste, tafferugli bloccati di un sillabario di sfere in rotazione, cerebro-ripostigli privi di lari, campionari di stati d'animo di acero e di specchio: una Metropolis lignea ed inoffensiva, degna dei Tempi moderni di Chaplin. Una tragica ritirata liberatoria. Per questo c'inquieta quando nel curato catalogo Cartha Germano Celant prende a parlare di «spazi che appartengono al demanio delle femminilità negata» o di sculture come «continua riscoperta della cripta del sacrificio di sé». Ci pare non ci sia bisogno di scomodare tanti idola: e così difficile ammettere che la Nevelson inventi una nuova geniale bellezza, non noiosa né punitiva, o ascetico-concettuale? Per fortuna ci pensa lei, la sua miracolosa levità a ripagarci con nutritiva libertà mentale: «La ricerca consapevole della mia vita è stata quella di un nuovo modo di vedere. Questo non implica soltanto l'oggetto, ma lo spazio tra i luoghi, le albe e i crepuscoli, il mondo oggettivo, le sfere celestiali, gli spazi tra terra e mare...». Marco Vallora pioli torniti) bellezza inata, rugosa e ^ nta di un E- |P me fatti di un'alternanza di equilibrio e tensione». Pesantis" sima, monumentale «Dream House», una delle opere più nificative ealizzata a Louise Nevelson nel 1973 gia: «Il cubismo ti dà un blocco di spazio per la luce». La luce, e l'impero notturno delle ombre, di. cui lei si fa Regina, Architetto: «Era jSfiMB&SBI In alto, «End of day» lavoro realizzato dalla scultrice americana nel 1972 A Chicago i bozzettiI primi pasdell'inquieto ~~T~\ DESSO, dopo Londra e A Madrid, se l'è filata all'I/l stituto d'Arte di Chicago, ri ennesima conferma che AAJ l'Italia è ormai completamente tagliata fuori dal giro delle «vere» mostre, e comprensibilmente: ma c'è da sperare che presto ritomi in Europa, questa bellissima, intelligente mostrasaggio dedicata al Goya di piccolo formato: Verità e Fantasia. Sono i minimi quadri - bozzetti o fumicate schegge «per sé» che non si vedono quasi mai ai musei: dunque, una mostra importantissima. Che ti cresce dentro, a poco a poco: perché all'inizio è intelligentemente messo in luce il Goya piuttosto mo «Dream House», una delle opere più significative realizzata da Louise Nevelson nel 1973 In alto, «End of day» lavoro realizzato dalla scultrice americana nel 1972

Luoghi citati: Chicago, Europa, Italia, Kiev, Londra, Madrid, Roma