BARBI IL TE STO MAI TRADITO

BARBI: IL TE STO MAI TRADITO BARBI: IL TE STO MAI TRADITO Un maestro della filologia NON vorrei che la ristampa, a cura di Vittore Branca, dell'opera fondamentale di Michele Barbi, La nuova filologia e l'edizione dei nostri scrittori da Dante al Manzoni (Le Lettere, pp. 19 + XLI + 294, L. 42.000), uscita per la prima volta nel 1938, si esaurisse nell'omaggio di rito al sommo filologo, e poi venisse messa da parte, e nessuno si confrontasse con le idee esposte soprattutto nell'Introduzione, con una vivacità e un'icasticità polemica quanto mai godibile al di sotto del rigore delle posizioni e dei giudizi. Nella prefazione Branca insiste particolarmente sui meriti della nostra filologia contemporanea, storicizzandone le vicende, i meriti, i trionfi, la lezione tuttora viva e attiva, lungo un secolo tuttavia non pacifico neppure nell'ambito filologico, anzi percorso da frequenti scontri interni, oltre che dal più generale e pretestuoso quanto futile contrasto che si volle, nel passato idealista e soprattutto crociano della nostra cultura, instaurare fra filologia e critica. E' un discorso che merita di essere fatto anche in rapporto con le molte e clamorose cantonate che i critici dei «contenuti» ovvero delle ideologie anche negli ultimi tempi hanno preso per gravi insufficienze di informazione filologica, trattando sociologicamente o psicoanaliticamente o storicisticamente opere e autori. E' possibile che, pur nella coerenza e nel rigore delle proposte e degli interventi, qualche soluzione che il Barbi proponeva per il testo della Commedia appaia superata dopo l'edizione curata dal Petrocchi, tuttavia proprio mettendo a frutto la necessità, sempre sostenuta dal Barbi per l'edizione di un testo, di raccogliere la maggior parte possibile di testimonianze e di codici; ma rimane assolutamente valido il metodo, come si può vedere anche dalle pagine sulle Grazie foscoliane e sui Promessi Sposi. Soprattutto nell'Introduzione, questo concetto si intreccia con la vigorosa protesta nei confronti di edizioni di Dante, del Decameron, delle rime del Poliziano, dell'Orbando innamorato del Boiardo, dove la verità del testo (e la volontà dell'autore) è tradita da correzioni, adattamenti, addirittura «traduzioni» in una lingua regolare e più (a detta dei curatori) «comunicativa». Ma il rigore nell'offrire il testo secondo la forma che l'autore gli ha dato non significa renderlo presso che inintelligibile al lettore, specialista o no che sia. Già il Barbi sosteneva giustamente che il filologo, nel dare un testo, deve dare insieme anche il commento, che è la misura della sua comprensione dell'autore e dell'opera curata. Di qui le pungenti osservazioni sugli «Scrittori d'Italia» fondati dal Croce per l'editore Laterza, che dal commento accuratamente rifuggono, poiché si deve cogliere il sentimento ispiratore e il valore di poesia del testo, e tutto il resto non conta: posizione che lascia via libera ad arbitrarietà, oscurità, anche errori nell'edizione, in quanto il testo è presentato senza la preoccupazione, che dovrebbe essere fondamentale, del significato. In un momento come è questo, in cui in tante edizioni si finisce, con una conservazione totale delle pure convenzioni grafiche e tipografiche che sfiora il criterio dell'edizione diplomatica, a rendere del tutto illeggibile l'opera anche da chi pure è addetto ai lavori, per non parlare di quelle che si designano comunemente come «persone colte>\ il richiamo del Barbi va meditato e raccolto, fino a correggere tale perniciosa tendenza. Vedere, per esempio, conservare l'accentazione grave sulla «é» finale in parole che la retta pronuncia esige pronunciate con la e chiusa, soltanto perché così è interpretabile il geroglifico dell'accento o così riportano le prime edizioni a stampa aliene da ogni distinzione d'accenti per abitudine tipografica, mi suscita, pur nell'apparente irrisorietà del fatto, molto disagio, perché è il segno di un esercizio della filologia che non ha più di mira il testo, ma esalta le elucubrazioni del curatore. Si rilegga il Barbi, allora, e si impari. Le «regole» della lingua Allo stesso modo, oggi suona certamente meno nuovo e strano di quando fu fatto il richiamo molto energico a evitare ogni uniformazione e ogni appiattimento morfologico, lessicale, formale, nelle edizioni, per la libertà, ancora evidente in autori ottocenteschi, di fronte alle «regole» della lingua: a non scambiare, insomma, il testo per il compito di uno scolaro da correggere, magari in omaggio a un razionalismo e a un ordine che Un 'opera fondamentale, tra Dante e il Manzoni, a cura di littore Branca proprio nulla hanno a che fare con l'inventività sempre un poco magmatica e aggressiva (e irrazionale) della letteratura, che il filologo deve rispettare, non ridurre alle proprie concezioni della regola e della misura. E se il Barbi, a proposito delle Grazie, indica autorevolmente la via da seguire per l'edizione del «carme», cioè di dare le varie parti e stesure di parti, senza voler giungere a scelte arbitrarie, fra stesura e stesura, è anche vero che ammonisce il curatore filologo a darsi anche pensiero della leggibilità del testo, per non defraudare il lettore della possibilità della lettura. E' questa una preoccupazione che il Barbi ribadisce ogni volta che gli si offra l'occasione, non soltanto a proposito zla delle Grazie. Esc e da Einaudi la trilogia di Lucio Mastronardi «Il maestro di figavano, Il calzo/aio di Vigevano, Il meridionale di Vigevano» (pp. 544, L. 17.000). Il libro è a cura e con l'introduzione (nepubblichiamo qui di seguito ampi stralci) di Giovanni Tesiti. IL «caso» Mastronardi nacque da una miscela di elementi diversi, dalle contingenze della storia e dalla fragilità del carattere, dalle circostanze culturali e dalle affinità geografiche naturali. La storia è quella del dopoguerra e dei primi Anni Sessanta del cosiddetto boom economico; la geografia quella di un paese d'acque e di terre (Vigevano come luogo di frontiera tra la grassa Lomellina e il Milanese), in preda a un convulso processo di aggiornamento industriale. Non a caso il promeneur solitaire che c'è sempre nelle pagine di Mastronardi tende alla campagna di cascine e canali oppure alla nostalgia delle mura cittadine che trasudano voci e rumori di lavori artigianali. (...). Nato nel '30 a Vigevano, Mastronardi era figlio di un ex ispettore scolastico, in pensione d'ufficio per antifascismo, e di una maestra vigevanese. Il padre era invece originario di Cupello, un paese abruzzese vicino a Vasto ed è lo scrittore stesso a ricordarne i tratti salienti in una delle lettere a Calvino, non datata ma databile alla seconda metà di settembre del '63: «Il mio

Luoghi citati: Cupello, Italia, Vasto, Vigevano