Quel Piranesi sono io Il re dei falsari confessa

Società' e Cultura In un'autobiografia, i segreti di Eric Hebborn Quel Piranesi sono io Il re dei falsari confessa I HE vulcano quel signor ArI ' cher: barba rosso fiamma e I scintille al posto degli ocI i chi. E con che vigore af—5;éJfrontava ima linea, con quale tenerezza tratteggiava una forma. Lo splendido insegnante di disegno stava per toccare in sorte all'emaciato ragazzino che, nell'estate del 1949, si era presentato nelle tetre stanze del Mid Essex Technical College and School of Art di Londra per acquisire i primi rudimenti. Ma il signor Archer si era trovato davanti un allievo dalle doti quasi più eccezionali delle sue: Eric Hebborn, nato nel sobborgo londinese di South Kensington da un commesso di drogheria e da una corpulenta casalinga, appena si chinò sulla tela mostrò di essere un pennello d'oro. Problemi di non poco conto venivano invece dal carattere turbolento del pittore in erba: appena messo davanti a una natura morta per ritrarla, quando il maestro girò le spalle fece fuori tutto quello che c'era di commestibile nel suo modello, un paio di mele e alcuni panini. Eric era stato per due anni in riformatorio, accusato di aver tentato di dar fuoco alla sua scuola, ma in realtà - la racconta lo stesso Hebborn nelle memorie che stanno per uscire da Longanesi Troppo bello per essere vero. Autobiografia di un falsario - l'incendio era stato una conseguenza del suo precoce interesse per l'arte che lo aveva portato a bruciare dei fiammiferi per usarne la punta come un carboncino. Quasi trent'anni dopo la mano dotata e l'estro di Hebborn appiccheranno un altro strepitoso rogo facendo ardere con le sue falsificazioni il mercato internazionale dell'arte. All'inizio degli Anni 50 Hebborn acquisiva le prime nozioni della «mala arte» con cui si divertirà a beffare critici ed esperti. Ogni giorno saliva le scale buie e strette di un ufficetto dietro Bond Street, dove dominava un forte odore di trementina: vi alloggiava George Aczel, piccolo genio del «male» sèmpre in abito di tweed, che introduceva il perspicace Hebborn a tutti i segreti di un «restauro» ben fatto. Nella fucina incantata quadri antichi diventavano ancora più antichi, oppure cambiavano faccia. Hebborn imparò come si ottiene l'effetto delle crepe passando un ago lungo i fili orizzontali della trama, o come una tela che presenta buchi o strappi si può riempire con un impasto di bianco di polvere su cui si poteva disegnare «in stile». Imparò anche alcuni concetti fondamentali: che «la linea di demarcazione tra il restauro e la vera e propria ridipintura può essere molto sottile, né si deve pensare che un'alterazione moderna guasti necessariamente un quadro vecchio. Riporteremmo la Cappella Sistina a ciò che era prima che Michelangelo sostituisse gli affreschi del Perugino con i propri? Elimineremmo i ritocchi con cui Rubens aveva l'abitudine di migliorare i mediocri dipinti antichi della sua collezione? No. La verità è che l'antichità di un'opera non è una garanzia di qualità». Forte dunque della sua convinzione che molti quadri antichi possono essere, nonostante la loro «aura», piuttosto «bruttini», Hebborn cercava di dare loro luce e grazia aggiungendo gatti su tele quattrocentesche, cani e cavalli ad opere dell'Ottocento, trasformando brutte megere in sorridenti ragazze. Hebborn muoveva così i primi passi come «restauratore» per arrivare al primo falso d'autore: una splendida «produzione in proprio» di un Van de Velde il Giovane, cotto in forno per invecchiarlo al punto giusto a 100-105 gradi. Dopo questa prima prova, acquistata immediatamente e finita in un elegante salotto londinese, l'apprendistato poteva considerarsi concluso. Subito dopo vedevano la luce alcuni disegni di Augustus John, grazie ai quali il falsario entrava in contatto nel 1963 con la celebre Casa d'aste Christie's. Gli Augustus John falsificati ebbero tanto più successo di quelli autentici - Hebborn ne è giustamente orgoglioso - tanto che ancora oggi si possono comprare parecchi originali al prezzo di uno solo contraffatto. Lo stesso discorso vale per un Pinelli di Hebborn esposto, nel 1981, alla galleria Rondanini e descritto nel catalogo come uno dei migliori prodotti creati dal disegnatore e incisore. Roma fu una tappa importante nella scelta di Hebborn nel mondo della truffa con tavolozze e pennello: vi trasferirà la sua Pannini Galleries Ltd, attraverso la quale mercanteggiava i dipinti «ritrovati». Il primo contatto con l'Italia il falsario lo aveva avuto durante un viaggio durato mesi e fatto a piedi da Calais con un pesante zaino sulle spalle e intervallato da lunghe tappe a Venezia e a Firenze, per vedere da vicino le grandi opere del passato. Il soggiorno nella Serenissima era stato magnifico, guastato solo da un piccolo neo. Hebborn, da sempre omosessuale, era entrato nelle grazie di una ex ragazza che «amava divertirsi», un po' invecchiata, dai capelli grigi e dal volto segnato: Peggy Guggenheim, che nella sua casa-museo aveva appeso le opere dell'ex marito Max Ernst davanti al wc. Nella capitale, invece, insieme all'arte, Hebborn aveva incontrato l'amore nelle fattezze di un muscoloso ragazzo dai boccoli caravaggeschi, e si era imbattuto in una buona stella, destinata ad illuminargli la strada degli affari: sir Anthony Blunt, sovrintendente delle collezioni di pittura della Regina e direttore del Courtauld Institute, che fu l'amico ideale, il compagno di bisbocce nelle serate romane. Solo molti anni dopo si scoprirà la faccia segreta del Baronetto, doppiogio chista e spia russa. L'allampanato Sir, «con le costole di un Santo denutrito», per anni divenne un valido sostegno per Hebborn mettendolo in contatto, tra l'altro, con principi e magnati, aiutandolo ad entrare nelle dimore più inaccessibili. Fu proprio Blunt che procurò a Hebborn la commissione per i ritratti postumi di due membri della famiglia Rothschild. Il successo arrideva alla fortunata ditta del falsario londinese che era coadiuvato nelle sue imprese dai vari amanti. Trasferitosi nel '68 da Roma in una bella villa ad Anticoli Corrado, Hebborn inaugurava con le tasche piene di quattrini il suo più fortunato decennio. I capolavori, sfornati a getto continuo tra Roma e Londra, cadevano come pere mature nelle mani di Sotheby's, Christie's e della prestigiosa Colnaghi e C. che aveva la sede in Old Bond Street. Nella capitale, per le stampe, come affezionato cliente c'era il mercante Plinio Nardecchia a piazza Navona e per i disegni l'acquirente più assiduo era Edoardo Fiorani a via del Babuino. Ma il raggio d'azione di Hebborn era destinato ad allargarsi a macchia d'olio, mentre cresceva il numero degli interlocutori che si trovavano a mungere opere d'arte dalla sua inesauribile fonte. Ad un ritratto a matita di uno pseudo Corot, seguivano «I templi di Venere e di Diana», fatti passare per una tela doc di Jan Bruegel il Vecchio e che furono addirittura utilizzati per ridatare le varie fasi della vita dell'artista. Il «Lamento delle tre Marie sul Cristo morto», nello stile del Mantegna, era preceduto da un Poussin, considerato ineguagliabile e da un Piranesi copiato su un grande foglio di carta pesante del Settecento. Di opere false dell'incisore architetto ve ne furono anche molte al¬ tre, ma «visto che non intendo facilitare il compito dell'esperto mi riferirò solo al Piranesi che mi è stato attribuito con certezza», commenta Hebborn nei cui occhi, sotto le sopracciglia pesanti, non si è mai spento il luccichio di chi si è divertito un mondo a gabbare sedicenti esperti e collezionisti. Ma il decennio dei glandi affari stava per interrompere il suo corso. Lo scandalo scoppiò in seguito ai sospetti di Conrad Oberhuber, sovrintendente della National Gallery di Washington, che cominciò a dubitare confrontando due disegni di autori molto diversi e notando che presentavano una linea che sembrava appartenere alla stessa mano. Nonostante il grande rilievo dato alla stampa e il terrore di musei e privati, le gallerie coinvolte, come la Colnaghi, non stimarono avere a disposizione elementi sufficienti per un'azione legale e non vollero comunque danneggiare il mercato, rinunciando a trascinare Hebborn sul banco degli imputati. Ma la gallina dalle uova d'oro non era pronta ad arrendersi e aveva ancora molte frecce al suo arco. La Pannini veniva smantellata, ma Hebborn continuava a sfornare i suoi prodotti. Spuntarono ancora dal prodigioso cavalletto studi di Tintoretto, Pontormo, Parmigianino, Gian Battista e Gian Domenico Tiepolo. Di sensi di colpa, o pentimento per tanti capolavori violati, Hebborn non parla mai. Se deve dare la responsabilità a qualcuno Hebborn chiama in causa gli esperti che hanno fatto cilecca nelle attribuzioni o i mercanti d'arte che hanno lucrato sulle vendite dei quadri: «Soltanto l'etichetta data a un'opera può essere falsa, non possono esistere dipinti o disegni falsi. Basta educare gli addetti ai lavori a scrivere "Andrea del Sarto, nella maniera di Raffaello"», osserva Hebborn. Comunque queste sono diatribe che appartengono al passato. Oggi Hebborn ha abbandonato il pennello malandrino e assicura - parola di falsario - che non vi metterà mai più mano. Mirella Serri Molte sue opere mai smascherate; una vita a beffare critici e mercato CBRIS'TIE'S *T SA* / Isa hi/i*/, k,( ivdfjk. M&4jfc trovati». Il primo contatto con l'Italia il falsario lo aveva avuto durante un viaggio durato mesi e fatto a piedi da Calais con un pesante zaino sulle spalle e intervallato da lunghe tappe a Venezia e a Firenze, per vedere da vicino le grazie di una ex ragazza Ernst davanti al wc. Nella capitale, invece, insieme all'arte, Hebborn aveva incontrato l'amore nelle fattezze di un muscoloso ragazzo dai boccoli caravaggeschi, e si era imbattuto in una buona stella, destinata ad illuminargli la strada degli affari: sir Anthony Blunt, sovrintendente delle collezioni di pittura della Regina e direttore del Courtauld Institute, che fu l'amico ideale, il compagno di bisbocce nelle serate romane. Solo molti anni dopo si scoprirà la faccia segreta del Baronetto, doppiogio Una ricevuta di Christie's per due «Augustus John» e «Scuola del Manlegna», venduto a Colnaghi nel 1967