Don Antonio anello del potere

E' stato il signore delle tessere Da lui dipendeva il 40% della de Don Antonio, anello del potere Ascesa e caduta del «re di Napoli» ADe Mita don Antonio, con il suo 40 per cento di tessere de, serviva più di tutti gli altri, certo, ma per la stessa identica ragione ne aveva - giustamente, occorre dire, con il senno di poi - paura. Così, in una girandola di sentimenti contraddittori, lo proteggeva, però se ne vergognava, cercava disperatamente di farlo fesso e al tempo stesso di controllarlo, lo disprezzava e insieme lo lusingava. «Se fosse nato a Milano - spiegava nel 1987 - sarebbe presidente del Consiglio da dieci anni». Troppa grazia. Già oggi procura un certo turbamento sapere in carcere per camorra un uomo che pur senza essere arrivato alla presidenza ha avuto una potenza enorme al Viminale; uno che ha fatto e disfatto «pacchetti anti-crimine», preso di petto la legge Gozzini, quella sulla droga, la Rognoni-La Torre; uno che sapeva tutto prima di tutti e negoziava, per dire, accordi segreti con gli Usa per la protezione dei pentiti. E intanto, come s'è poi appreso, nei clan chiamavano Gava «'o mosto», il maestro, lo incontravano di nascosto e per strada gli baciavano le mani (come da stupenda foto di gruppo acclamante: notevole la più assoluta mancanza di imbarazzo). Sempre eccitatissimi, con scadenza ormai semestrale, i giornalisti gli cingevano d'assedio l'automobile per avere qualche risposta alle terribili accuse. Bene, lui si limitava ad abbassare il finestrino, guardando fisso davanti a sé. Una volta si lasciò sfuggire un rassegnato, per quanto eduardianamente imperfetto «'A da passa 'a settimana»; un'altra volta, nel cortile di Palazzo Chigi - su richiesta disperata: «Dica qualcosa» - sfoggiò un memorabile «Io parlo, ma non dico»; un'altra ancora, come grazioso scherzo, offrì a un cronista parlamentare l'anello «ciciniello», letteralmente piccolo cece - da baciare. Il gesto, rompendo una certa bonomia di modi, rinviava a realtà molto lontane, quasi primordiali, perfino minacciose. E neanche a dire che no, che tutto quel supposto malaffare allora non si poteva sapere, che su Gava c'erano solo dei sospetti. Quando venne fatto ministro dell'Interno, il comico Benigni, alla tv, disse che era come aver nominato il mostro di Firenze alla presidenza dell'Associazione dei ginecologi italiani. Nessun politico era stato non solo più attaccato, ma anche più sociologicamente osservato e studiato di Gava, anzi dei Gava (padre, figlio, fratelli, cognati e segretari particolari che si ritrovavano regolarmente nei guai). Tomi e volumi, dunque, studi topografici e mappe articolatissime, elaborazioni e contributi anche internazionali su quel bossism e quella politicai machine che a partire dal colera ( 1973 : e neanche a farlo apposta c'era un vibrione che aveva nome «Ogava») avevano finito per sviluppare una vera e propria leggenda nera. Leggenda nera, d'altra parte, documentata da oltre 300 querele e che comunque, ben prima del caso Cirillo (1981), si nutriva - pure a dismisura - di un'atmosfera vagamente sudamericana a base di doppipetti rigati, anelli, rolex, braccialoni d'oro, sigari cubani, motoscafi. Ecco, in seguito Gava ha sempre protestato per le rappresentazioni a tinte forti («Pure la brillantina mi mettevano in testa!»), eppure è acclarato che talvolta don Antonio riceveva gli ospiti in uno strano salotto occupato per due terzi da un cubo di cemento. Dentro c'erano i maggiorenti della de di Napoli, seduti silenziosi attorno a un tavolo: il padrone di casa li mostrava di colpo, aprendo una porta a muro, per sorprendere il visitatore e far fare bella figura. Il potenziale sulfureo e autodistruttivo del personaggio, insomma, era già piuttosto evidente - anche se giornalisticamente esagerato - negli Anni Settanta. Ciò nonostante, e grazie anche a Ciriaco De Mita, che ne sottovalutò paurosamente le compromissioni, Gava è stato un vero dominatore dei seguenti Anni Ottanta, l'artefice della vana rivincita dorotea. E, a di- spetto delle accuse selvagge che gli piovevano addosso, della sua propria rivalutazione. E' questo infatti, se si vuole, il passaggio biografico più affascinante, enigmatico e anche scabroso. In altre parole la trasformazione di quello stesso Gava stra-coinvolto con la camorra in una specie di super saggio, aspirante statista, cristiano perfetto, politico sublime, stratega elegantissimo, commentatore arguto e battutista eccelso. Uomo di grande potere, soprattutto. Per cui, solo a riandare con la memoria a quei tempi, 1987-8889 e seguenti, vengono fuori anche le lodi di Visentini, l'articolo «Riceviamo e volentieri pubblichiamo» su Repubblica, altre sbobbe pensosamente intitolate «Il mio impegno contro il crimine», e scritti a proposito di santi ed encicliche sul Mattino, senza contare le indiscrezioni sulla cura dimagrante e sull'allevamento dei canarini, o l'ammirazione per la giovane, bella e capace assistente poliglotta, e tutti a sbellicarsi se gli scappava detto: «Cacchiarola!». Forse non si accorse, Gava, che in quel modo veniva a perdere la capacità di incarnare un potere freddo, scarno, silenzioso, senza un'idea, senza un fremito. Quei giorni di sole se li visse invece con fasulla saggezza e trasparentissima ambizione. Sotto tiro, di nuovo, per il «voto insanguinato» del 1990, con la camorra che accoppava gli amministratori come mosche, arrivò a paragonarsi a Zanardelli. Voleva fare il segretario de o il presidente del Consiglio. Per eccesso di prudenza e furbizia parlava come una sibilla, quindi lo invitavano a spiegare sulla prima pagina del Giorno: «Apprezzo - esordiva - il notevole lavoro, anche esegetico, sul significato di alcune espressioni da me usate...». I giornalisti lo rincorrevano anche al cesso (indimenticabile un'allegra scenata fuori di quello di piazza del Gesù). Volle scrivere un libro, La politica al Centro, e uno lo scrisse il suo factotum, promosso prefetto, Raffaele Lauro, intitolato in un modo che adesso sembra una beffa: La de verso il Duemila. Lui invece per via di un terribile diabete non arrivò neanche alle ultime elezioni. Quando diede le dimissioni chiamò a testimone Nostro Signore: «E' lui che me le ha chieste». Misteri democristiani: peccati e acqua santa, Storia e camorra, gloria e galera. Filippo Ceccarelli E' stato il signore delle tessere Da lui dipendeva il 40% della de ce Dio Mio. quanti luoghi cornimi sii di ine li dagli con questa storia di (iava impomatalo lo che non bri mai usalo la brillai/lina I-ancora con questa storia clic mi soni) rifatto il look; che ero grasso e ora sono dimagrilo, che indosso il doppiopetto, come se /osse un crimine (l'i agosto l')SN) Oggi sunti /empi che appartenere a una famiglia numerosa, in politica, danneggia. Qualunque cosa fai. l'addebitano al capo. i-"> luglio l<J70) Se qualcuno rota me pure da morto, vuol dire che in fondo non mi comporto poi lauto male (li agosto P)tiN) lo soliti cattolico e credo al detto «eslotc parati-, stale preparali, può accadere di tallo, nel senso cristiano (7 dicembre ì')ti()) La Ih a Napoli e cristiana'' I-orse lo spirito del maligno ha più gusto ad abitare proprio nella sede di coloro che dorrebbero essere perfetti (21 maggio 1976) Il A sinistra Roberto Benigni. In basso, da sinistra, Ciro Cirillo e l'ex ministro Bruno Visentini

Luoghi citati: Firenze, Milano, Napoli, Usa