I dolori di Trevelyan tradito dall'Italia

discussione. Una biografia del grande storico: così gli inglesi ci hanno amati, e sono stati delusi discussione. Una biografia del grande storico: così gli inglesi ci hanno amati, e sono stati delusi I dolori di Trevelyan, tradito dall'Italia Dal sogno garibaldino all'incubo fascista w j IN inglese «italianato» - si diceva a Londra in epoca elisabettiana - è un diavoI I lo incarnato. Erano gli an^ I ni in cui lo stereotipo italiano più diffuso nelle isole britanniche era quello del cortigiano intrigante, machiavellico, papista, corrotto, tutto veleno e pugnali, con un tagliente stiletto perennemente nascosto fra gli sbuffi di seta del giustacuore. Due secoli dopo lo stereotipo si rovescia nel suo contrario. L'italiano, in Gran Bretagna, cambia volto. Ha gli occhi azzurri e i capelli biondi di Garibaldi. Ha lo sguardo profondo e intenso di Mazzini. Ha gli occhi penetranti di Cavour, appena nascosti dalle lenti ovali degli occhiali a stanghetta. Ha la bonomia volgare e chiassosa, ma accattivante di Vittorio Emanuele II. La più bella storia d'amore della cultura europea fra Ottocento e Novecento è quella dei rapporti fra il liberalismo inglese e il Risorgimento italiano. Pochi Paesi hanno amato l'Italia quanto la Gran Bretagna durante le tre generazioni che corrono fra la difesa della Repubblica Romana nel 1849 e il suo ingresso in guerra a fianco degli Alleati nel maggio del 1915. E pochi Paesi ne sono stati così profondamente delusi. La storia di quel grande amore e delle sue fnistrazioni è riflessa, come la luna in uno specchio d'acqua, nella vita e nelle opere di uno dei maggiori storici inglesi del primo Novecento: George Macauìay Trevelyan, autore tra l'altro di una grande trilogia garibaldina (Garibaldi e la difesa della Repubblica Romana, Garibaldi e i Mille, Garibaldi e la creazione dell'Italia unitaria) che apparve a Londra fra il 1907 e il 1911. Una bella biografia di David Cannadine, pubblicata da Harper Collins (G. M. Trevelyan, A Life in History) suggerisce qualche riflessione sull'immagine dell'Italia in Inghilterra dalla nascita dello Stato unitario alla caduta del fascismo. I Trevelyan sono una piccola dinastia gallese e inglese che ha dato al Paese, nel corso della sua storia, un numero incredibilmente elevato di deputati, ministri, funzionari di colonia, intellettuali. Cannadine racconta che il passatempo preferito, quando il bambino Trevelyan giocava con il bambino Bertrand Russell, consisteva nel confrontare antenati alberi genealogici e parenti che si erano distinti al servizio della cosa pubblica. Il «servizio» di Trevelyan fu la storia. Aristocratico, liberale internazionalista e profondamente attratto dal risveglio dei sentimenti nazionali in Europa durante la seconda metà dell'Ottocento, dedicò tutta la sua vita di studioso ai due Paesi che maggiormente amava, la Gran Bretagna e l'Italia. Fu davvero, nel senso che Benedetto Croce dette più tardi a quelle parole, uno storico della «religione della libertà». L'Italia gli scorreva nel sangue. Nel 1867 il padre, George Otto, corse in Italia nella speranza di partecipare con Garibaldi alla presa di Roma. Non vi riuscì, ma considerò quel gesto come «la cosa più romanzesca» della sua vita; e vent'anni dopo volle raccontare al figlio, dall'alto del Gianicolo, la tragica fine delle Repubblica Romana nel luglio 1849. Più tardi quando il giovane George Macaulay prese moglie (Janet Penrose Ward, autrice a sua volta di una Breve storia degli italiani, apparsa nel 1920) un amico di famiglia gli dette, come dono di nozze, l'Autobiografia di Garibaldi. E più tardi ancora, quando decise di mettersi al lavoro sul grande ciclo dell'epica garibaldina, George volle fare a piedi o in bicicletta l'itinerario dei Mille in Sicilia e quello della ritirata, da Roma all'Adriatico, dopo la caduta della Repubblica Romana. L'ultimo volume della trilogia fu pubblicato nel 1911, in coincidenza con le celebrazioni per il primo cinquantenario dello Stato unitario. Sul ritratto dell'Italia liberale erano apparse le prime rughe. Il bombardamento di Tripoli nel settembre del 1911 gli dette un sentimento di dolore e di angoscia che divenne ancora più acuto quando apprese che uno degli incrociatori schierati di fronte alle coste libiche si chiamava Garibaldi. «Non credo che avrò il cuore di andare in Italia per parecchi anni» scrisse al fratello in quei giorni. Ma era profondamente liberale, quindi incline a tormentare la propria coscienza con qualche amara riflessione sul cattivo esempio che l'Inghilterra coloniale aveva dato all'Europa nelle generazioni precedenti. I dubbi e le amarezze scomparvero nel maggio del 1915. Nelle grandi manifestazioni popolari per l'intervento Trevelyan ritrovò l'Italia democratica e generosa dei suoi studi garibaldini. Troppo anziano e miope per combattere, ottenne il comando delle prime ambulanze britanniche che vennero inviate sul fronte italiano e lo tenne con coraggio sino alla fine della guerra. L'Italia fu ancora una volta, in quegli anni, il grande sogno nazionale e liberale che lo aveva indotto a raccontare l'epica garibaldina. Poi, con il dopoguerra, apparvero nuovi dubbi e nuove delusioni. La decadenza del partito liberale britannico, la nascita a Versailles di piccole nazioni aggressive e prepotenti, l'evoluzione illiberale di alcuni sistemi politici europei stavano rimettendo in discussione le grandi certezze della sua vita. Dopo l'avvento del fascismo cercò di spiegare a se stesso il successo di Mussolini in un Paese di cui egli aveva esaltato la nobiltà, l'umanità, la tolleranza bonaria, i senti¬ menti democratici. In una conferenza del 1923 sostenne che la democrazia italiana era stata, sin dalla grande fioritura mediovaie delle Città-Stato, «non istituzionale». Non si esprimeva nelle urne, come in Inghilterra, ma nelle piazze. Non prendeva le sue decisioni dividendosi razionalmente in maggioranza e minoranza, ma attraverso grandi moti di consenso popolare. Cesare, Garibaldi, Daniele Manin, lo stesso Mussolini appartenevano a quella tradizione, erano manifestazioni di «democrazia diretta». Negli anni seguenti deplorò le brutalità fasciste, criticò severamente la guerra d'Etiopia e osservò con malinconia che Mussolini stava trasformando gli italiani in «tedeschi di seconda classe». Ma criticò anche gli errori della politica inglese, denunciò le velleitarie sanzioni del 1936, cercò fino all'ultimo momento di salvare ciò che ancora restava dell'amicizia italo-inglese. Deluso dalle vicende europee del dopoguerra e profondamente amareggiato della politica delle potenze vincitrici a Versailles, si ritirò in una sorta di cupo isolazionismo. Era davvero indispensabile che l'Inghilterra rischiasse la propria distruzione per la Boemia o la Polonia? L'interventista del 1914 divenne, entro certi limiti, pacifista. I limiti furono oltrepassati il 10 giugno 1940. Nel giorno i cui l'Italia dichiarò guerra alla Gran Bretagna morì 2 grande sogno della sua vita. Scrisse una sorta di necrologio per lo Spectator, restituì al governo italiano le medaglie ricevute durante la prima guerra mondiale, soffrì quando le truppe alleate cominciarono a risalire la Penisola distruggendo le città e le opere d'arte che egli aveva amato. Riacquistò un po' di fiducia e ottimismo dopo la fine della guerra quando tornò in Italia per l'ultima volta e fu colpito dalla rinascita della vita democratica. Correggendo in parte le sue considerazioni del 1923 sostenne che il fascismo non era figlio del Risorgimento e che mai il «suo» Garibaldi avrebbe dato la propria approvazione a un regime illiberale come quello che aveva governato l'Italia per vent'anni. Nell'anno in cui visitò l'Italia (1947), l'India divenne indipendente e Trevelyan vide nell'avvenimento una nuova, grande epifania liberale. Sarebbe stato ancora più felice, osserva Cannadine, se avesse saputo che Nehru, quando era studente a Oxford, aveva letto avidamente il suo grande trilogia garibaldina. Ma il mondo era ormai profondamente diverso da quello in cui Trevelyan era cresciuto. Erano scomparse le grandi élite liberali di cui egli era stato uno dei più brillanti prodotti. Era scomparsa in Inghilterra quella società colta, tollerante, internazionalista e profondamente umanistica per la quale l'Italia era stata una seconda patria. Delle due grandi nazioni che avevano riempito la sua vita nessuna ormai assomigliava fedelmente a quelle di cui egli aveva dipinto il ritratto nei suoi libri più belli. La sua ultima delusione gliela dette il governo britannico con la malaugurata spedizione Suez nel 1956. Morì sei anni dopo, venerato, rispettato, ma ignorato dagli studenti dell'ultima generazione. Con la sua biografia Cannadine gli restituisce lo spazio a cui ha diritto. Potremmo, a nostra volta, restituire alla sua ombra le medaglie della prima guerra mondiale. Le accetterebbe? Sergio Romano Criticò Mussolini ma anche gli errori del governo di Londra Nella sua vita la love story culturale fra liberalismo britannico e Risorgimento italiano a cavallo di Ottocento e Novecento A sinistra lo storico inglese George Macaulay Trevelyan: in una celebre trilogia cantò l'epica garibaldina Qui sopra Giuseppe Garibaldi e Giuseppe Mazzini. Nell'immagine grande la mano dell'Eroe dei due mondi sulla carta geografica dell'Italia