« Ma non siamo disinnescati »

« « Ma non siamo disinnescati » Il giorno della pace, fra promesse e minacce DIECI SEDI IN 19 ANNI QMILANO UESTO è il giorno dei buoni. La polizia sgombera all'alba e i ragazzi del Leonka non ci sono già più. Le chiavi tornano a Cabassi. Cabassi le restituisce ai ragazzi. I ragazzi rientrano: queste macerie in formato capannone sono loro. Evviva. Ci sono stati giorni cattivi in questi 19 anni di storia e storie transitanti dentro alla scritta rossa «Leonkavallo», centro sociale toccato da un destino specialissimo: resistere, perpetuarsi nel tempo (Anni Settanta e Ottanta e Novanta) che ha arrotondato tutto, gli spigoli della politica e quelli della società, la vita e la memoria. Tre rosse bandiere, sul capannone più alto, una partita di calcio nel cortile fatto di vetri rotti, musica che dondola lenta come un lenzuolo. Sotto al nuovo sole, qui a Greco, tra treni in transito verso la stazione Centrale e i palazzoni bianchi del ceto medio, Daniele Farina in giacca e barba sfatta dice: «Questo - e il gesto indica tutto quello che si vede - è un mattone caduto sulla testa del nostro amato Formentini. Noi ci siamo, non può cancellarci, dovrà rassegnarsi». Stessa scena, più o meno, cinque anni fa, agosto '89 dopo la battaglia, il sangue, gli arresti, con i blindati della polizia espugnante che se ne andavano e i ragazzi che tornavano tra macerie più o meno come queste, solo più esplose: «Siamo vivi, siamo qui, siamo l'opposizione sociale». Anche Pillitteri, sindaco d'allora, alzava le spalle e sorrideva. Tutto iniziò (si è detto e scritto cento volte) nell'inverno del 1975 per avventura e colpo d'occhio, una fabbrica farmaceutica dismessa, un collettivo giovanile in cerca di un po' di cemento. Intorno c'era una Milano molto diversa da adesso, più cupa, più fredda, più arrabbiata, con gli operai davanti ai cancelli e gli studenti fuori dalle università. Tutto (o molto) doveva ancora succedere. Il Leonkavallo era un punto rosso tra i tanti, ennesimo laboratorio per quello che Toni Negri chiamava «il processo di autovalorizzazione». C'erano le organizzazioni extraparlamentari e il conflitto sindacale, i partiti e un passato che assomigliava al futu¬ ro. Al Leoncavallo, come altrove, si parlava di Marx e di Lenin, le giornate erano fatte di parole, manifesti, collettivi, assemblee. La musica sarebbe venuta dopo. E con la musica, il vestire eccentrico, i tatuaggi, rivoluzione punk, concerti di musica metallica, ronde contro lo spaccio di eroina, tensioni notturne tra cittadini insonni e decibel, tensioni diurne tra l'ala dura dei politici e l'ala creativa del movimento. Gli anni di piombo stavano per scoccare e le fiammate dell'Autonomia incendiarono le piazze, per spegnersi nelle aule bunker dove anche il Movimento finì per essere congelato. E mentre nella città spariva tutti i, il Leoncavallo teneva accesa la luce. Una luce appena (generatore a gasolio in proprio) che di lì a poco sarebbe sembrata persa nel nulla. Perché è vero che «l'antagonismo sociale» dileguò, abbagliato dalla nuova e promettente elettricità craxiana. Andò in sonno, finì ai margini della città nelle periferie che non fanno storia, al massimo un po' di cronaca con le morti da eroina. La luce del Leonka stava lì, reperto dimenticato che con lentezza macinava i suoi giorni di resistenza passiva. E' stata la resistenza attiva a risvegliarne muscoli e orgoglio. Per l'appunto in occasioni degli sgomberi e più di tutto ha fatto il buon Formen¬ tini, con la sua caccia perpetua di un nemico, finalmente trovato «in questa accozzaglia di disperati». Dal sonno, la rivolta. Che poi è diventata la deambulazione farsesca di questi mesi. Cacciati da via Leoncavallo, con destinazione via Adriano, poi parco Trotter, poi Parco delle Cave, poi via Uccelli di Nemi, poi Bovisa, poi cascina Van Gogh, poi palazzina Krupp, via Salomone, infine qui, nel fabbricone fra i treni in frenata. Tra un trasferimento e l'altro, la nuova tensione dei cortei, con polizia e elicotteri a blindare il centro, lo scontro sfiorato una mezza dozzina di volte e infine acceso, un sabato fa. «Scontri fatti con il sangue agli occhi, dopo quasi un anno di tensioni mai esplose, di inseguimenti e perpetui divieti», come dice Primo Moroni. Si ferma qui, per ora, la storia del Leoncavallo, con una immagine davvero stravagante. Il geometra un poco emozionato che l'altra mattina riconsegna le chiavi ai ragazzi: «Sono il rappresentate della famiglia Cabassi». «Una soluzione simbolica - dice Moroni - trovata d'incanto da una vecchia famiglia borghese, dopo mesi e mesi di stupidità dei nuovissimi leghisti». Finisce con un colpo di teatro. Dice Farina: «Non ci aspettavamo una svolta così». La polizia 'che se ne va, loro che restano. :'Un'occhiata in giro: le macerie intorno non sono un problema: «La nostra sede l'abbiamo ricostruita tante volte - dice Sandrone che di sgomberi ne ha fatti quattro -. Ma se credono che adesso diventiamo tutti buoni, si sbagliano: non siamo disinnescati». La storia continua. Pino Corrias Dopo il colpo di scena «Se adesso credono, che diventiamo buoni si sbagliano» A lato, il Leoncavallo. Sopra, il sindaco di Milano Marco Formentini. In alto, la famiglia Cabassi

Luoghi citati: Milano, Nemi