Sulla porta segreta di Sarajevo di Giuseppe Zaccaria

Un tunnel percorso da file di disperati è l'unica via per uscire dall'assedio, portare cibo (e forse armi), salvarsi dai cecchini Un tunnel percorso da file di disperati è l'unica via per uscire dall'assedio, portare cibo (e forse armi), salvarsi dai cecchini Sulla porta segreta di Sarajevo Ottocento metri di buio, dall'altra parte c'è il mondo NELLA CITTA' MARTIRE SARAJEVO A un'aria molto comune, la porta d'ingresso nella leggenda. Un po' deludente, perfino. Sarà che a forza di sentirla descrivere uno s'era immaginato chissà quale antro, o chissà quale straordinaria opera d'ingegneria. Invece è tutto qui: pare una di quelle grotte che tutti abbiamo visto da bambini, quelle aperture buie che apparivano di colpo dietro un cespuglio e aggredivano la fantasia, annunciando mistero, minacce ed orrori. Questa spelonca invece nasconde la vita: anzi, qui la chiamano «il buco della vita». Signori, benvenuti al tunnel: il tunnel che da due anni fa vivere Sarajevo. Se ne favoleggia da tempo. Ne avevo sentito parlare così a lungo da convincermi di trovarmi di fronte a una sorta di leggenda metropolitana, uno di quei miti che sangue, assedi, fame, disperazione e guerra partoriscono e alimentano fino a renderli sempre più vividi. Il tunnel invece esiste, è qui, dinanzi ai miei occhi: e adesso sta vomitando figure stralunate, che appena fuori dal budello sgranano gli occhi e respirano a fondo, ma giusto per un attimo, poiché decine di mani le sospingono lungo la breve salita che conduce al piazzale, le sorreggono, prima di fermarle per i controlli. Il percorso dev'essere liberato al più presto: ogni sosta, ogni attimo speso per rifiatare hanno l'effetto di un grumo che ostruisca un'arteria, rischiano di produrre paralisi in un intero sistema di rifornimento. Dall'altra parte qualcuno sta ritmando gli attraversamenti con secchi messaggi via radio. Siamo a Dobrinje, in direzione dell'aeroporto, estrema periferia di Sarajevo, anzi, del mondo. Qui per dire che si va in centro dicono «u grad», in città: una ragazza ci ha raccontato che tre mesi fa, quando dopo due anni di isolamento ha finalmente potuto percorrere i cinque, sei chilometri che la separano dalla zona degli uffici, per qualche attimo le è parso di trovarsi in America. Anche adesso, dal luogo in cui ci troviamo i cecchini serbo-bosniaci distano 150 metri in direzione Nord, e 200 a Sud. Oltre l'ultima quinta di palazzi (costruzioni basse, squarciate dalle bombe) s'intravede la torre di controllo di quello che fu un bell'aeroporto. Il tunnel passa sotto la pista, per ottocento metri. Adesso però basta con le pennellate d'ambiente: allo stato maggiore del primo «Corpus» bosniaco, prima di accordarci il permesso per giungere fin qui aveva- no raccomandato in ogni modo di non fornire elementi che possano consentire ai serbi di individuare esattamente il luogo. Precauzione inutile, avevo obiettato: tutti a Sarajevo sanno dov'è «il Buco». Ma tant'ò: dunque meglio limitarsi a dire che a questo luogo si arriva dopo un tortuoso percorso fra case devastate, cataste di pullman in funzione anti-cecchino e trincee che attraversano il quartiere collegando un rudere all'altro. Ogni tanto ti dicono di correre per attraversare rapidamente gli spazi vuoti: finalmente, mentre maledici l'idea che ti ha spinto fin qui, arrivi ansimante al piazzale chiuso da una grande sbarra. Questa è la stazione di rifornimento: oltre la sbarra sostano un pullman, due o tre camion, e un blindato dato alla luce da un'ardita operazione di «bricolage». Il colpo d'occhio più strabiliante non è però offerto dai mezzi, né dagli uomini, né dalla guardia armata. Il tunnel è in fondo al piazzalo, sulla destra, dopo una costruzione che serve a coprirlo. Dall'altro lato, un ex parco pubblico offre in sequenza tre istantanee che in qualsiasi altro posto del mondo apparirebbero folli, o bizzarre, o costruite dal fotografo che vuol vincere il Pulitzer. Prima quattro tombe in fila, ricavate proprio sul bordo del prato. Subito dietro - due o tre metri, non di più - una famiglia è seduta intorno a un tavolino, come per un pic-nic. Ancora qualche passo più in là, una distesa di cavoli, verze, piantine di pomodoro, divisa in piccoli orti. Pare contenere tutto, quel parco: vita e morte, lutti del passato e cibo per l'ipotesi di un futuro, con al centro quella famigliola che meglio non potrebbe esprimere il sentimento di vuoto con cui Sarajevo si aggrappa al presente. Non si passa, fa un soldato. Il permesso del primo «Corpus» non lo convince, deve parlarne col comandante: ma proprio mentre si allontana, dalla parte del tunnel comincia a notarsi una certa animazione. Basta qualche passo, per raggiungere l'angolo e ricavare quella che, in termini televisivi, sarebbe stata una splendida inquadratura. Escono in fila, i giovanotti, tutti macchiati di polvere gialla. Ognuno porta con sé uno, due pacchi. Tutti portano una divisa, e gli involucri non vengono aperti. Deve trattarsi di un «carico» già atteso. Appena fuori dal tunnel, ognuno si dirige verso un camion, senza incertezze. I serbi hanno accusato più volte i bosniaci di aver usato il budello anche per rifornirsi di armi: queste scatole non sembrano contenere Kalashnikov, ma neanche confettura di ciliegie. Il soldato grida di tornare indietro: «Qui non è possibile, la zona è protetta da segreto militare». Inutile protestare: «Andate a parlarne col comandante di brigata: qui lui è Dio». Si chiama Izmet Dervisha Hadgic, il comandante: un gigante di due metri con una barbetta da hidalgo, l'eroe di Dobrinja. L'uomo che per due anni è riuscito a resistere ad un assedio nell'assedio. E' un uomo strano eppure affascinante, il sostituto locale di Dio: prima della guerra studiava l'applicazione di energie «pulite» per conto della Energoinvest. Adesso accetta il colloquio (pare non l'avesse mai fatto, prima) ma solo alla presenza di un altro ufficiale, gentilissimo, che è il responsabile della sicurezza e si presenta solo con uno pseudonimo, Khalib. In lingua araba significa «vincitore». «Il tunnel? Per noi non esiste», spiega il comandante, fra pause lunghissime. «Esistono altre cose: quello che abbiamo fatto nel quartiere, l'acqua che siamo riusciti a portare fin sotto le case, il sistema di pompe che ha impedito alla gente di impazzire per la sete. Oppure la solidarietà che siamo riusciti a creare. Sa quanta gente vive a Dobrinje? 27 mila persone. L'ultima granata è caduta ieri sera, tre giorni fa un cecchino ha ferito un bimbo di 11 anni. Eppure in tutto questo tempo abbiamo avuto solo due casi di verdure rubate negli orti. Soltanto due». Dall'incontro col comandante in poi, ogni ulteriore passo nel quartiere si è svolto sotto il controllo e la guida di un militare bosniaco. Un militare simpatico. E' accaduto, per esempio, di incontrare un giovane alto e biondo, di nome Fehim, che camminava con due scatole sotto il braccio e parlava un po' d'inglese. L'uomo di scorta non capiva, mentre l'altro raccontava di un incubo durato mezz'ora, lungo ottocento metri di un budello in cui si respira a fatica. Non più di due metri di larghezza, nella parte centrale sei costretto a piegarti in due per non urtare la testa. «E' un posto sconsigliato ai malati di cuore...», aveva detto sorridendo. Tranne poi a irrigidirsi quando gli ho domandato cosa ci fosse nelle scatole. Anche il controllore alla fine si è sciolto. Non è intervenuto quando una ragazza ha detto che l'inverno scorso da quel tunnel passavano solo cipolle e patate. Quando però il discorso si è spostato sul prossimo inverno, anche la sua scorza di addetto alla sicurezza per la Petna Motorizavna Brigada ha finito con lo sbriciolarsi. «Io ho due figli, la più piccola ha quattro anni: due mesi fa, quando i rifornimenti arrivavano ancora, ho potuto comprare delle banane. Lei non voleva mangiarle, non sapeva cosa fossero. E l'altra settimana, dinanzi al primo pollo arrosto della sua vita, ha puntato il dito e ha detto: che schifo, un topo». Giuseppe Zaccaria Il budello passa sotto all'aeroporto è largo due metri 10 si percorre di corsa per non bloccare 11 solo passaggio verso la vita Cadaveri nell'obitorio di Sarajevo con il cartellino di identificazione Un casco blu britannico gioca con i bambini

Persone citate: Brigada, Citta' Martire, Pulitzer

Luoghi citati: America, Sarajevo