Danze di guerra della Navy a Haiti

Danze di guerra della Navy a Haiti Danze di guerra della Navy a Haiti WASHINGTON DAL NOSTRO CORRISPONDENTE Il dado è tratto, dicono alla Casa Bianca. I collaboratori di Bill Clinton hanno fatto sapere che ormai il Presidente, nel minacciare un'invasione di Haiti, si è spinto troppo avanti per poter tornare indietro. Anche al Congresso prevale questa sensazione: il problema dell'invasione non è più «se» ma «quando», e il «quando» sembra piuttosto imminente, nell'arco delle prossime quattro o cinque settimane, forse prima. Sono ormai 15 le navi della Marina americana che eseguono danze di guerra nella rada di Port-au-Prince; e nei prossimi giorni elicotteri Usa sorvoleranno l'isola lanciando volantini. Si intensificano le esercitazioni, mentre il segretario di Stato Warren Christopher informa che sono ormai 17 i Paesi che hanno deciso di unirsi al corpo di spedizione americano, per un totale - in verità non impressionante - di 1500 uomini. Ma questa viene presentata come prova di una robusta solidarietà internazionale. Christopher non ha specificato in quale fase dell'operazione i 1500 uomini offerti da altri Paesi saranno chiamati a partecipare. Gli accordi finora noti con quattro Stati caraibici escludono una partecipazione delle truppe non americane alla prima ondata dello sbarco. In termini politici, la preoccupazione fondamentale della Casa Bianca riguarda la possibile perdita di uomini nella fase dello sbarco. Con la maggioranza degli americani ancora contraria all'invasione, il problema potrebbe diventare molto serio. Ma in termini tecnici, la preoccupazione principale del Pentagono riguarda la fase successiva alla presa di possesso dell'isola, che viene considerata un'operazione semplice. Quanto tempo ci vorrà per garantire pienamente l'ordine pubblico? Occorrerà fronteggiare episodi di guerriglia? In grande misura, questi problemi finiranno per cadere sulle spalle della forza multinazionale di pace che l'O- nu spedirà sull'isola dopo che gli americani avranno stabilito il controllo militare. India, Norvegia, altri Paesi ancora si sono già quotati per mandare uomini. Ma tra l'inizio dell'operazione e la partenza della seconda fase ci sarà in mezzo un periodo di tempo critico, in cui toccherà agli americani garantire la pacificazione. Il Pentagono ha fatto sapere ieri che i piani dell'invasione sono già pronti. Non ha ovviamente rivelato dettagli, tranne quelli più ovvi. Saranno usati parecchi reparti d'elite, come i Seals della Navy e i Rangers dell'esercito, e i primi obiettivi di cui assumere controllo sarebbero i palazzi governativi della capitale, l'aeroporto internazionale, le comunicazioni telefoniche e quelle radiotelevisive. Ci si aspettano perdite, ma inferiori a quelle registrate nell'invasione di Panama del dicembre '89, in cui morirono 23 americani. A Grenada, nell'83, ne morirono 18. Clinton sta per assumersi un grosso rischio, anche perché molti americani, compresi tutti quelli che sono contrari all'invasione, ma non solo, pensano che la sua decisione sia soprattutto dettata da calcoli di politica interna. Sui giornali la polemica si allarga sempre più. Sul «Washington Post» di ieri, l'ex-capo delegazione all'Onu Jeane Kirkpatrick si chiede che senso abbia «imporre la democrazia con la violenza», soprattutto in un Paese in cui «non sono in gioco interessi americani vitali». E' vero che l'amministrazione per cui lavorava Kirkpatrick, quella di Ronald Reagan, invase Grenada proprio per ristabilire la democrazia. Ma adesso Reagan non è più Presidente e l'obiezione di Kirkpatrick ha una sua forza autonoma rispetto alla storia. La cosa migliore per Clinton sarebbe che la giunta golpista di Haiti, spaventata dai tamburi di guerra americani, decidesse spontaneamente di abbandonare il campo. Ma da Port-au-Prince giungono invece notizie di esercitazioni militari in corso. [p. pas.] 1

Luoghi citati: Grenada, Haiti, India, Norvegia, Panama, Usa