Il pianto e la polemica dell'arcivescovo Pulic di Giuseppe Zaccaria

Il pianto e la polemica dell'arcivescovo Pulic Il pianto e la polemica dell'arcivescovo Pulic NELLA CATTEDRALE «TRADITA»- PSARAJEVO IANGE, Vinko Pulic: una lacrima sola, che gli solca il viso al termine di un sermone disperato. E nella cattedrale del Sacro Cuore lo smarrimento della gente quasi si marmifica: questa Messa solenne non avrebbe dovuto svolgersi qua ma all'aperto, a Zetra. Non tremila, ma venticinquemila avrebbero dovuto essere i fedeli. E su quell'incredibile cattedra d'ebano istoriata adesso avrebbe dovuto sedere il Papa, non la figura avvolta d'imbarazzo e d'oro del suo Nunzio, Francesco Monterisi. Alle undici, la cattedrale di Sarajevo è stracolma. «Grazie, Santo Padre, per essere qui nei nostri cuori, ma comprendete anche il nostro dolore: vogliamo fermare quest'odio, questa paura: abbiamo bisogno d'aria...». Si è chiusa su queste parole, l'omelia, e adesso è come se lentamente la celebrazione stia perdendo di vigore. No, vedere tre vescovi in pompa magna, Monterisi che impugna un pastorale d'argento, sentirsi piovere sulla testa una benedizione che è papale solo per interposta persona, non può essere la stessa cosa. Si era aperta sul canto di gioia che avrebbe dovuto accogliere Giovanni Paolo («Oce Nas Dobri», caro padre), questa Messa di riparazione. Per qualche minuto la partecipazione è parsa viva, calda: ma poi è stato sull'altare che qualcosa ha cominciato a raffreddarsi. Monterisi è piccolo, rigido, teso: il concelebrante è Vinko Pulic, e non c'è bisogno di conoscere a fondo la liturgia per rendersi conto della freddezza che li separa. Quando hanno dovuto scambiarsi il segno di pace non hanno neppure mimato un abbraccio, le loro guance non si sono neanche sfiorate: solo un rigido, reciproco inchino, a rendere plasticamente tutta la delusione del pastore, tutto il disagio del diplomatico. No, non può essere la stessa cosa. Ascoltare il Papa di prima mattina, come Sarajevo ha fatto via radio, non consola di una presenza mancata proprio all'ultimo istante. «Come primo Papa slavo - diceva la voce di Wojtyla - cado in ginocchio dinanzi a te, Padre, e ti chiedo di liberarci da malattia, fame, guerra...». Erano le otto: all'ospedale del Kosevo avevano at- tivato un sistema di altoparlanti interno per consentire a tutti i ricoverati di ascoltare. Verrà il tempo della ricostruzione, aveva promesso Giovanni Paolo. Se l'era presa con «gli aggressori dal cuore di pietra, aggressori etnici, insensibili ai diritti altrui». Aveva aggiunto, perfino: «Perdonare non significa dimenticare». Adesso quella voce profonda e sofferente invade anche la Cattedrale: il rito si è concluso, e attraverso un impianto radio la voce del Papa tenta di consolare i fedeli. Chissà se riesce nell'impresa: quando la radio tace, solo qualche suora accenna un applauso. Fuori, dinanzi alla Cattedrale, un gruppetto di «Beati costruttori di pace» arrivati in pullman per il grande evento mancato, suona qualcosa alla chitarra e poi improvvisa un canto che vorrebbe essere gioioso. Hanno costruito una piccola mongolfiera, i «Beati», si dispongono in cerchio mentre qualcuno impugna una torcia e cerca di far decollare questo simbolo di cartavelina. Sale, la sfera colorata, nel sole di Sarajevo, i ragazzetti applaudono con entusiasmo un po' esagerato. Poi, cinquanta metri più in là, la mongolfiera si impiglia agli abbaini di un palazzo e rimane là. Tutto finito, dunque? Si direbbe di sì, se proprio ieri uno strano fervore di telefonate e incontri non avesse autorizzato qualche speranza. Non si tratta, chiariamolo subito, di essere ottimisti a tutti i costi né di ridimensionare la portata di quella che, per il Vaticano, in Bosnia è oggi una grave sconfitta. Ma mentre giornali e governo continuano a esercitarsi nella ripetizione delle responsabilità (è stato più perfido Akashi, nel disegnare i pericoli di Sarajevo, o più pavido il Nunzio Monterisi, nel sopravvalutarli?), qualcosa ha ripreso a muoversi, anche se non si comprende ancora verso quale direzione. Proviamo dunque a ragionare sui pochi elementi disponibili. Primo fatto: ieri mattina Giovanni Paolo II ha personalmente telefonato al vescovo Pulic. Non si sa esattamente a che ora sia avvenuta la chiamata, né ovviamente ci sono indiscrezioni sul suo contenuto. E' facile immaginare un Karol Wojtyla addolorato per il rinvio, in qualche modo consolatorio. Raccontano solo che il ci ,!oquio si è chiuso con una pjumessa: «Arriverò presto». Secondo elemento: ieri pomerig(_ , intorno alla sedici, un Mom-erisi sempre più silenzioso ha disdetto alcuni appuntamenti e si è recato in grande fretta alla presidenza della Repubblica. Doveva incontrarsi ancora con Alja Izetbegovic, quasi certamente per consegnarli una lettera del Papa e riceverne un'altra in risposta: all'incontro però hanno partecipato stranamente alcuni alti ufficiali dell'Unprofor, quasi che si stessero riesaminando le possibilità. Nulla di più, per ora: ma forse converrà attendere qualche giorno ancora, prima di considerare questa storica visita definitivamente superata dai fatti. Il resto è cronaca di guerra: due aerei inglesi sono stati colpiti ieri mentre giravano sull'aeroporto (che peraltro aveva appena riaperto). I «cecchini» continuano un lavoro da ragionieri: anche ieri una donna è stata ferita. E' accaduto proprio al quartiere del Kosevo, a poche centinaia di metri di distanza da quello stadio di Zetra dove nessuno ha ancora tolto un chiodo dalla tribuna papale montata negli ultimi giorni. In serata, su Sarajevo si è cominciato a risentire il boato delle granate. Ma questa giornata, almeno a una cosa è servita: in Cattedrale, quando la Messa si stava concludendo, il famoso coro di duecento ragazze che avrebbe dovuto accogliere il Papa ha intonato l'inno che Karol Wojtyla avrebbe dovuto sentire. Peccato, non era male: somiglia moltissimo alla Marcia dell'Aida, ma era arricchito da profonde suggestioni balcaniche. Giuseppe Zaccaria Al momento dello scambio del «segno di pace», il prelato e il nunzio Monterisi non si sono abbracciati ma si sono limitati a un inchino A Sarajevo si ascolta l'omelia del Papa

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