SAUSSURE nella giungla delle parole

AUSSURE AUSSURE nella giungla delle parole Gli inediti del grande linguista svizzero. A ottanta [1 anni dalla morte «prima mondiale» in italiano ~Y] L 15 gennaio del 1968, alI la sezione manoscritti e I libri rari della biblioteca I universitaria di Harvard _AJ (Cambridge, Massachusetts) arrivò una cassa. Conteneva quaderni, fogli, foglietti, buste e bustine, schede, biglietti. Scartafacci, avrebbe riassunto Croce. Tutta quella carta veniva da Ginevra, e costituiva un fondo di manoscritti di Ferdinand de Saussure (1857-1913), il linguista svizzero che «don Benedetto» amava ancor meno degli scartafacci (lo conosceva poco, ma gli imputava grande «rozzezza o innocenza logica»). La biblioteca di Harvard aveva acquisito i manoscritti dagli eredi, per 2000 dollari, grazie ai buoni uffici del linguista russo Roman Jakobson, che all'epoca insegnava appunto a Harvard. La prima edizione mondiale degli inediti esce solo oggi: è quella antologica di Laterza, in italiano (Ferdinand de Saussure, Manoscrìtti di Harvard, a cura di Herman Parret). Può sorprendere che siano inediti dei testi di un autore scomparso da più di ottant'anni. Tanto più se l'autore ha avuto un ruolo capitale, e Saussure - nonostante Croce l'ha avuto. La linguistica si occupava delle lingue. Dopo Saussure, si è occupata del linguaggio. L'immagine ufficiale di Saussure è quella di un genio della razionalità. La sua era un'ottima famiglia ginevrina, di tradizioni naturaliste (era un suo avo quell'Horace-Bénédict de Saussure che nel 1787, spinto dai propri interessi per la geologia dei ghiacciai, compì una delle primissime ascensioni del Monte Bianco). Ferdinand aveva ricevuto un'educazione scientifica, ma la linguistica lo interessò da subito: già a quattordici anni aveva composto un Essai sur les langues. Poco meno precoce è il Mémoire sul sistema vocalico nelle lingue indo-europee (1878) che rivoluzionò i metodi della linguistica comparativa. Lì il ventunenne Saussure arrivò a postulare un fonema-fantasma, di cui nulla sapeva, tranne che doveva esserci, per forza di sistema (C'era: fu scoperto cinquant'anni dopo). All'epoca Saussure studiava a Lipsia, e si era attirato l'antipatia dei locali, che ricambiava (per tutta la vita ricordò la «mostruosa buaggine dei tedeschi»). Era già famoso e quando si presentò a un autorevole germanista, questi gli chiese se fosse un parente del grande linguista svizzero, l'autore del Mémoire. Oltre ai meriti scientifici, il Mémoire ha un secondo primato: è rimasto l'unico libro pubblicato da Saussure, in vita. Come si sa, la summa del pensiero di Saussure è il Corso di linguistica generale, e non è un suo libro: si tratta di tre cicli di lezioni il cui testo venne ricostruito dagli appunti degli studenti. Tutte le altre ricerche saussuriane sono contenute solo in appunti, testimonianze e - ma solo fino al 1894 - in saggi brevi. Saussure si riteneva «epistolofobo», e si preoccupava: «Ho un morboso orrore della penna... questa stesura mi infligge un supplizio inimmaginabile». Non si trattava di mera renitenza alla scrittura: negli apparati della sua fondamentale edizione del Corso di linguistica generale, Tullio De Mauro racconta che quando Saussure tenne tre conferenze sulla sillaba, queste vennero trascritte ma l'autore non permise la pubblicazione. Anche i manoscritti di Harvard sono frammentari. Qualsiasi brano è afflitto da correzioni, false partenze e rifacimenti successivi: paragrafi riscritti sette volte, mozziconi di discorso cancellati cinque volte, di seguito. Spesso Saussure si interrompeva come se lo sconforto gli avesse fatto cadere la penna di mano (anche nei punti più impensabili, sul più bello: «Ci sembra naturale che»). Parlando, non gli succedeva: grande didatta, aveva pochi allievi (i tre leggendari corsi di linguistica generale ebbero rispettivamente cinque, undici e tredici studenti) che hanno testimoniato come il suo pensiero sembrava trovare una forma stabile solo lì per lì, mentre lo esponeva. Come quelle dicotomie e opposizioni che lui stesso ha introdotto nel pensiero occidentale (lingua/parola; sincronia/diacronia; paradigma/sintagma...), Saussure allora appare duplice. E' il professore inflessibile con sé e con gli altri: nella prima lezione avvisava gli allievi che erano dati per noti il greco, il latino, l'inglese, il tedesco e l'italiano. E quando postulò una regola anagrammatica nei poeti antichi, scelse la via più impervia: come ha concluso Starobin¬ ski, «Saussure vuole che la regola sia severa e proibisca ogni soluzione di comodo al poeta, come al decifratore». Ma poi aveva cospicui lati oscuri, che hanno indotto a qualche pettegolezzo persino un uomo austero come Gianfranco Contini. Intervistato da Ludovica Ripa di Meana, Contini rac¬ conta che Saussure «un bel giorno, scompariva. Lo cercavano e lo trovavano nei bassifondi di Marsiglia, mettiamo, che orgiava, si ubriacava. Aveva proprio questi brani di follia ciclica, come nella vita, così nella sua attività scientifica». E questo è anche il Saussure capace di interrogativi più che inquietanti. In una lettera che è un hit della mestizia erudita, Saussure scrisse di certi studi sull'accento lituano: «Mi sono disgustato di tutto ciò e della difficoltà che in generale si trova a scrivere dieci righe che abbiano senso comune in materia di fatti di linguaggio». E «Mio malgrado, tutto ciò finirà in un libro in cui, senza entusiasmo e senza passione, spiegherò perché non c'è neanche un termine impiegato in linguistica a cui io riconosca un senso purchessia». E «Tra l'inizio e la fine di una frase si è tentati di riscri¬ verla cinque o sei volte». E «Niente di più scoraggiante che cercare una formula razionale». Genio e sregolatezza? Oppure ordinari sbalzi d'umore? A un certo punto, nei manoscritti di Harvard si legge: «Ma si potrebbe dire: cosa si intende per realtà?». Almeno per la linguistica, Saussure una risposta l'aveva. Fondamento (razionalissimo, e ormai dato per incontrovertibile) della sua dottrina è che non esiste alcuna realtà linguistica fuori da un punto di vista e gli elementi della lingua vivono solo della reciproca differenza: nA non può designare niente senza l'aiuto di b, né b senza l'aiuto di a, perché nessuno dei due vale se non per quell'intreccio di differenze eternamente negative». L'oggetto della linguistica, e poi dello strutturalismo e della semiotica è una corrispondenza immateriale, una relazione (persino il più astratto fra i suoi seguaci, il danese Louis Hjelmslev, disse: «Saussure, che cercava rapports dappertutto...»). Paradossi, forse: «L'unità fondamentale è la coppia». Ma un altro linguista, Emile Benveniste, commemorando Saussure, ha dichiarato: «Il linguaggio è quanto di più paradossale esista, e peggio per chi non se ne accorge». All'epoca di Saussure non se ne accorgevano in molti, e sarebbe già una buona ragione per renitenze e autocensure. Con un buon mezzo secolo di anticipo, Saussure cercava la chiave di una teoria chiusa, serrata quanto il sistema della lingua: «Mettere delle affermazioni in fila è niente; coordinarle in un sistema è tutto». Come nei peggiori incubi dell'ermeneutica, e del folklore dei proverbi, il particolare (o l'uovo) determina il generale (o la gallina), ma senza un'idea del generale non si arriva al particolare. Così Saussure non vuole più pubblicare alcunché su sillabe sanscrite o accenti lituani, se non ha descritto il sistema; ma da che parte si comincia? E che parole dire, sopra le parole? Così non parrà neanche tanto strano che nel volume dei manoscritti di Harvard i frammenti linguistici siano seguiti da un'ampia sezione di appunti su India e Indù. Il Saussure che pedina fantasmi linguistici, che studia le verbigerazioni dei sonnambuli, che nega in linea di principio la realtà sostanziale dei fonemi, è affascinato dalla credenza induista nella metempsicosi. Non in sé, ma in quanto essa è «considerata sempre come realtà di pura evidenza, là dove gli oggetti della percezione sensibile non sono affatto presi come realtà certa». E rimpiangeva che l'Occidente avesse solo due vie: «Conoscete o non tentate di conoscere l'Ignoto, l'Inaccessibile». Nel 1812 Saussure si ritirò dal mondo, credendo di avere consegnato le sue teorie incompiute al silenzio. In attesa di morire, sempre più malato e probabilmente assai stanco di frequentare abissi, intraprese studi di sinologia. Stefano Bartezzaghi Un genio della razionalità a quattordici anni il primo saggio: a 21 fondò una nuova disciplina. E non disdegnava i bassifondi di Marsiglia Odiava scrivere lasciava solo fasci di appunti per le sue lezioni: gli accademici lo chiamavano «Vepistolofobo» ande linguista svizzero. A ottanta [1 anni dalla à o a a a Ferdinand de Saussure e Benedetto Croce. Sotto, da sinistra: Gianfranco Contini, Jean Starobinski e Tullio De Mauro

Luoghi citati: Cambridge, Ginevra, India, Marsiglia, Massachusetts