Quelle lezioni di Enrico Fermi

PARLA UN'ALLIEVA PARLA UN'ALLIEVA Quelle lezioni di Enrico Fermi CAPELLI bianchi ancora rampanti, carnagione e occhi limpidissimi, ricordi - antichi, a mezza distanza e recenti - evocati con puntiglio lievemente vanitoso e con una chiarezza da spiazzare la sicumera di molti psicologi. Vera Angeloro, quasi ottantanove anni, ascendenze meridionali, viene da Pisa. Siamo a Tirrenia, in altri tempi centro di stabilimenti cinematografici e di colonie marine (ora ridotti in umide sepolture): una gran massa di pini che ha per scriminatura la via Pisorno, dal buffo nome da ibrido di animale, che divide i suoi rivali frequentatori pisani o livornesi. Nel 1925 Vera, non ancora ventenne, è a via Panisperna: viene dall'Istituto Fisico Matematico - che con la riforma Gentile diventerà Liceo Scientifico - con la media dell'otto che l'ha affrancata dall'esame di Stato. Uno dei suoi professori ha appena 24 anni: è Fermi. A parte l'unicità delle sue lezioni, il suo genio, per una quasi coetanea Enrico Fermi era - nel senso attuale della parola - affascinante? «No. Aveva lineamenti regolari ma rigidi: dunque non era bello. Lo sguardo duro, lontano. La sua cattedra era un tavolo zeppo di prese elettriche che, durante la lezione, Fermi tormentava con le mani, accarezzandole e picchiettandole in un continuo gioco nervoso, piuttosto distraente. Invece a teatro...». A teatro? «Al Valle. Nel loggione numerato. Anch'io frequentavo quel loggione e lo vedevo seguire attento gli attori: sempre perfettamente immobile». La ex ragazza di via Panisperna sa ancora con esattezza nomi e cognomi dei compagni di corso, della vamp del gruppo, nipote di un notissimo ammiraglio della guerra '15-'18, che abitava in un quartiere esclusivo, come dei professori severi e permalosi. Ricorda perfettamente cruciali interventi, frasi apocalittiche: il professore di chimica che chiese a uno scolaro che disturbava come si chiamasse ed avendo l'impunito risposto che non se lo ricordava, vaticinò: «Ti riconoscerò tra mille anche tra cinquantanni...». Fermi lanciava anatemi del genere? «Mai. Se veniva disturbato, tutt'al più smetteva di parlare e riprendeva quando il disturbo cessava». Compagni di corso della Angeloro erano Arnaldi, Segrè e Majorana: tra ragazzi e ragazze c'era un dialogo scarno, essenziale, si davano il lei. «I professori appena vedevano noi ragazze in corridoio ci intimavano di sgombrare: mentre negli intervalli si associavano agli scolari e parlavano e scherzavano con loro. Arnaldi, che era chic e spiritoso, poteva esibirsi in corridoio nelle sue amate danze cosacche, che eseguiva con eleganza, ammirato da tutti». Gli hobby di Fermi e dei suoi scolari? «Majorana, pallidino, lentigginoso e un po' musone, non aveva hobby di sicuro. Fermi e Arnaldi erano appassionati della montagna. Fermi andava per monti con l'assistente di un suo collega, una signorina con parecchi anni più di lui. Una volta si persero e tornarono con un giorno di ritardo, pieni di cerotti. Fermi era affezionato a una macchina vecchissima: tutti noi, in questo caso ragazzi e ragazze insieme, correvamo per via Panisperna a raccattare i pezzi che la sua macchina abitualmente perdeva». Si pensava che la fisica fosse roba da uomini? «I professori si curavano poco di noi, pensavano che saremmo finite a insegnare; i ragazzi, invece, erano destinati alla grande ricerca». Vera ha insegnato per tanti anni al liceo, ha sposato Giacomo Porcelli, illustre latinista, ricordato anche come il preside più terribile di Pisa; il figlio è titolare di una cattedra di lingua e letteratura italiana all'università di questa città. «Sa che a noi ragazze facevano dare l'esame in piedi? In piedi, vicino alla lavagna. Tranne... tranne quella nostra compagna di corso che si fidanzò con Fermi. Lui non aveva lasciato capire un bel niente. Sempre quello sguardo freddo, assente, quelle labbra senza sorriso, quei modi svagati anche con lei, che poi divenne sua moglie. Ma noi l'avevamo capito dai professori: che agli esami la facevano sedere, le rivolgevano le domande non bruscamente come facevano con noi ma con gentilezza. Insomma, la trattavano con tutti i riguardi». Rossana Ombres

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