L'EREDITA' DI PICCHIO UN PRETORE OMICIDA di Giovanni Tesio

L'EREDITA' DI PICCHIO UN PRETORE OMICIDA L'EREDITA' DI PICCHIO UN PRETORE OMICIDA so molto lato che vi si possono individuare le impronte anche cospicue di una consuetudine con luoghi, idee, esperienze lasciate dall'autore sul suo protagonista, ma per il resto è difficile immaginare distanza più intera. Mario Rondani arriva ad esercitare in un paese del Piemonte dopo un periodo trascorso in una pretura calabrese. Di origine umile e di natura ritrosa, il timido Rondani si attorciglia intorno a sterili e tormentose auscultazioni, oscillando tra la coscienza della propria mediocrità e il sogno di un eroismo vagheggiato per compensazione nel fondo buio di se stesso, ben riparato dietro il compito sociale e la formale disciplina che il ruolo gli impone. Solo a tratti gli si fa strada il debole presagio di poter commettere «qualche sciocchezza o qualche cosa di peggio». Ma è quanto basta perché l'evento puntualmente accada, anche se in modo imprevedibile e abrupto, forse troppo: uno dei momenti meno persuasivi del romanzo, il più palesemente compromesso con toni da feuilleton. Ecco dunque il pretore uccidere una donna ricchissima incontrata fortuitamente. Per di più miracolosamente libera da ogni legame e dotata di un ingente patrimonio subito spendibile. Volendo rimuovere da sé ogni memoria dolorosa del gesto compiuto, il pretore Rondani abbandona la magistratura e tenta la strada della mondanità e dei grands tours per poi trasformarsi in possidente agrario. Ma l'ango- l hi 'illustrazione di ì Jearljìe/d scia torna a mordere a tratti finché una non corrisposta storia d'amore lo conduce, prima ad arruolarsi in guerra come volontario e poi - con prevedibile tracciato - a procurarsi la morte in trincea. Giocata in due tempi, dal 1909 alla guerra di Libia (prima parte) e negli anni della «grande guerra» (seconda parte), la vicenda include l'ascesa di un industrialismo ripreso di scorcio attraverso figure di dubbia moralità e di arroganti «brame» di possesso. La scena volgare in cui il pretore Rondani viene respinto dal padre della ragazza che avrebbe potuto diventare sua moglie è in questo senso esemplare, e prelude di poco all'e¬ vento cruciale dell'assassinio. Il romanzo si legge volentieri soprattutto nelle pagine di moeurs provinciali e di sobrio paesaggismo rustico-piemontese, nei profili di luoghi e stagioni, in molte delle figure minori, come quella del cancelliere Ciapolino e del maresciallo Miraglia, degne del Soldati più affabile. Ma si fa leggere volentieri almeno per un'altra ragione. Perché, a parte l'orrido olocausto della guerra, affronta due temi abbastanza trascurati dalla letteratura italiana (uno certamente): quello della giustizia ingiusta o dell'ingiustizia della giustizia e quello qui onnipresente (polemicamente caro, ad esempio, al socialismo cattolico di un Péguy), della «tracotante oppressione del denaro». Come testimonia la figlia dell'autore, il romanzo doveva addirittura intitolarsi La grana e il danaro riempie di sé quasi ogni pagina, occupa righe e coscienze, infetta rapporti, induce al cinismo e all'assassinio. Nella volgarità del secolo «ricco, pletorico, borghese» inaugurato dalla cosiddetta Belle Epoque resta dunque impigliata qualsiasi possibilità di riscatto. L'istruttoria romanzesca di Picchio è in questo senso eloquente almeno quanto la sua voce da vivo capace com'era - nella testimonianza del resto assai misurata della figlia - di stringere in connivenza i convenuti di una sua qualsiasi conferenza. Giovanni Tesio

Persone citate: Mario Rondani, Miraglia, Picchio

Luoghi citati: Libia, Piemonte