5 secoli à mal francese

// nome venne da un poema e piacque a Erasmo La sifìlide, portata dalle Americhe da Colombo, arrivò in Italia con le truppe di Carlo Vili 5 secdi à mal francese BEI primi giorni del settembre 1494 passava le Alpi, sulle orme di Annibale, l'esercito di Carlo Vili re di Francia. Il 9 settembre era ad Asti, il 31 dicembre a Roma. Avrebbe conquistato rapidamente l'Italia, fino a Napoli; e altrettanto rapidamente l'avrebbe persa. La «spedizione del gesso» - come fu definita perché la sola arma usata fu il gesso per definire gli alloggiamenti militari - sconvolse gli equilibri italiani senza dare alcun vantaggio ai francesi. E lasciò un segno, terribile, nella società europea: una malattia venerea che esplose mentre il re si ritirava, fino allora sconosciuta; i francesi la chiamarono «mal de Naples», gli italiani «mal francese». Solo 36 anni dopo prese il nome che ha poi conservato per secoli. Lo deve a un medico umanista veronese, Girolamo Fracastoro, compagno di Copernico all'Università di Padova, futuro archiatra al Concilio di Trento. Dopo aver studiato il male, Fracastoro lo descrisse in un poema latino, di andamento virgiliano, come allora usava: «Syphilis sive de morbo gallico». Immaginò che un pastore, Syphilus, avesse offeso il Sole, rovesciandone gli altari; e, per punizione, avesse ricevuto dal dio una malattia vergognosa: che gli abitanti delle campagne, ispirandosi a lui, avrebbero chiamato sifilide. Eravamo nel cuore del Rinascimento: il nostro Paese, diviso fra tanti signori, invaso da tutti gli eserciti, era in grado di imporre la sua cultura - e le sue parole - al mondo. Il nome «sifilide» piacque a Erasmo da Rotterdam, che lo usò in un suo testo; sostituì, rapidadiente, tutte le altre definizioni della malattia, per arrivare fino a noi. E la sifilide compie, in questi giorni, 500 anni. Fra le malattie sociali, la sifilide «è la più culturale di tutte, quella che più ha seminato terrore, quella che più ha influenzato la morale e la letteratura», scrive lo storico della medicina Claude Quétel, che al «mal francese» ha dedicato un grosso volume, apparso un anno fa dal Saggiatore. Bisogna arrivare all'Aids per ritrovare un simile fenomeno di paura collettiva, con impressionanti rassomiglianze nell'immaginario popolare; e, purtroppo, nei costi umani. Basti pensare alle parole di Erasmo, scritte nel 1520, che oggi ci suonano tristemente attuali: «Se mi si domanda qual è la malattia che stermina più uomini, io risponderò senza esitazione che è quel male che da qualche anno imperversa impunemente... Quale altro contagio si impossessa di tutto il corpo, resiste tanto ostinatamente all'arte medica, si trasmette così facilmente, e tortura con tanta crudeltà il malato? Esso ha combinato in sé quanto di più spaventoso c'è in tutti gli altri contagi». L'Europa ne fu scossa, disorientata. In quella società dove le comunicazioni erano lente, le strade malfide, gli spostamenti condizionati da tante difficoltà, la malattia corse rapidissima. I primi casi vennero registrati dai medici alla battaglia di Fornovo, del 5 luglio 1495, dove l'esercito francese in ritirata riuscì a rompere l'accerchiamento degli italiani, per la prima volta coalizzati fra loro. Cumano, medico delle truppe veneziane, racconta di aver visto «diversi uomini d'arme e fantaccini che per il fermento degli umori avevano delle pustole su tutta la faccia e su tutto il corpo. Di solito com- parivano sotto il prepuzio, o sulla parte esterna o sopra il glande... Dopo un anno i malati erano ridotti allo stremo dai dolori che sentivano nelle braccia, nelle gambe e nei piedi e da un'eruzione di grandi pustole». Tutte le testimonianze successive confermano quell'orrore. Johannes Benedictus, in un libro del 1508, ricorda uno stampatore di Venezia che dopo il contagio aveva subito la perdita del pene e dei testicoli. Ambroise Pare cita malati che «perdono un occhio o entrambi gli occhi, o una buona parte delle palpebre, e restano spaventosi a vedersi a causa di quegli occhi forati... Alcuni subiscono una contrazione delle membra in modo tale che altro non resta loro che la parola, il più delle volte un grido o un lamento per maledire l'ora della loro procreazione». Più orribili di tutti a vedersi gli uomini che avevano perso il blocco nasale, presentando una faccia perforata al centro. I lebbrosi parigini del lazzaretto di Saint-Germain protestarono quando la municipalità mandò i sifilitici nel loro reparto: troppo pericolosi. Partito dall'Italia, il male era stato sparso già nel 1495 in tutta la Francia, dai soldati che Carlo Vili aveva congedato dopo il ritorno in patria. Nel 1496 aveva raggiunto la Germania, l'Istria, la Tracia e la Sarmazia. Nel 1497 aveva attraversato la Manica, sbarcando in Inghilterra e in Scozia. Per difendere il suo popolo dal contagio, re Giacomo IV proclamò che tutti gli infetti si radunassero sulla spiaggia di Leith, fossero caricati su barche fornite di viveri e portati all'iso¬ la di Inche, «fino a che Dio provvedere per la loro salute». Chiunque non avesse lasciato il territorio scozzese entro la sera del lunedì avrebbe avuto la gota marchiata con il fuoco, per essere riconosciuto in futuro. Come alle origini dell'Aids, due sono i temi dominanti, nella polemica di quegli anni. Da parte dei sani, la sifilide è vista come un castigo divino, che si abbatte su chi ne infrange le leggi. «Piacque alla Giustizia Divina inviarci dei mali ignorati, mai visti, mai conosciuti, come quella malattia serpentina», scrive nel 1539 il medico spagnolo Diaz de Isla. E perfino il grande Jean Fernel, «il Galeno moderno», uno fra i più seri studiosi della sifilide, scrive nel 1548 che «l'impurità del singolo ha esteso la sua malvagità a tutto l'universo abi¬ tabile, per agire da flagello severo agli infami viziosi». Da parte dei malati, la sifilide è un male vergognoso, che isola dal rapporto sociale. Il tedesco Joseph Grunpeck, giovane chierico venuto a Roma alla fine del Quattrocento per studiare i danni provocati dalla malattia sui soldati dell'impero, finisce per contagiarsi anche lui e inutilmente cerca di nascondere la malattia a chi gli sta intorno. «Subito i miei cari amici mi girarono le spalle come inseguiti dal nemico con la spada alla gola». Ma chi aveva portato quella piaga, nel crocevia dell'Europa? Il gioco dei nomi, nei primi anni, ci dice che ogni Paese la addebitava a un altro. Per gli inglesi era il mal di Bordeaux, per i tedeschi ancora il mal francese, per i polacchi il male tedesco, per i russi il male polacco, per i fiamminghi il male spagnolo, per i portoghesi il male castigliano, per le Indie orientali il male portoghese. Solo nel 1526 un alto funzionario spagnolo, Gonzales Fernandez de Oviedo, per dieci anni sovrintendente alle miniere del Nuovo Mondo, trova una spiegazione convincente. La malattia è stata portata dai marinai di Colombo, reduci dalla prima spedizione (e dai rapporti con le indigene). «Alcuni di quei cristiani che andarono con lui e presero parte a questa scoperta e quelli che, in numero maggiore, fecero il secondo viaggio, portarono il flagello». Prima della patata, prima del tabacco, prima del pomodoro, le caravelle del navigatore genovese avevano caricato a bordo quel microbo che solo quattro secoli dopo, nel 1905, due studiosi tedeschi avrebbero identificato nel treponema pallidum: la subdola spirocheta diffusa attraverso il contatto venereo. I soldati che ritornarono in Europa erano più carichi di malattia che di oro, osserva nel 1564 Gabriele Falloppio. E Voltaire ricorderà che «la sifilide si diffuse più rapidamente dell'argento in Messico». La teoria «americana», pur convalidata da varie testimonianze autorevoli, non fu condivisa da tutti. Il medico spagnolo Sanchez, a metà del Settecento, sostenne che la sifilide era nata davvero in Italia; i seguaci di Rousseau, pochi decenni dopo, insorsero in difesa dei popoli indiani, «dai costumi così puri». Negli anni del positivismo si esumarono scheletri dalla Russia centrale, dall'alto Egitto, per dimostrare che la malattia veniva dal vecchio mondo. Qualcuno arrivò addirittura a vedere il marchio del sifilitico nei busti di Socrate. La querelle non è stata mai risolta, anche se l'origine americana del morbo sembra ancora oggi la più probabile. La sifilide sicuramente non c'era in Europa prima del 1494, sicuramente è stata introdotta dai soldati spagnoli nel Napoletano, due anni dopo la scoperta di Colombo. Ma non bisogna dirlo, ci fanno sapere dall'altra parte dell'oceano. Per i «natives americans» non è politicai correct. Dopo le terrificanti manifestazioni dei primi anni, il mal francese sembrò attenuare la propria violenza, qualcuno si illuse che la piaga sarebbe scomparsa da sé. I più ottimisti ne fissarono anche la data: chi per il 1580, chi per il 1584. Non pensavano che avrebbe raggiunto, con vari ritorni e riaccensioni, i 500 anni; oscurata soltanto, ai nostri giorni, dall'altro flagello che ha attraversato l'Atlantico, con il nome vanamente sterilizzato in sigla. Giorgio Calcagno Un flagello come l'Aids: in due anni si sparse per tutta Europa e provocò morte e dolore Fu un male talmente temuto che neppure i lebbrosi volevano accanto gli infetti // nome venne da un poema e piacque a Erasmo «L'uomo disperato» di Diirer Nel titolo: Erasmo da Rotterdam Due vittime celebri: Karen Blixen e Maupassant