Il Professore e le melanzane

Improvvisamente si spalancò la porta della veranda e comparve mio padre, accigliato, pallido CIBI D'AUTORE. Io, la Sicilia e i medici al capezzale di mia madre Il Professore e le melanzane RACCONTI D'ESTATE DN pomeriggio d'estate di tanti anni fa - moltissimi -, me ne stavo sulla terrazza della nostra casa di campagna, sotto il pergolato. Il riverbero del sole mi intorpidiva. Mi sentivo come un frutto maturo che stia per spaccarsi da un momento all'altro. Calabroni neroazzurri volavano pigri e sugli ulivi le cicale segavano il silenzio rotto, ogni tanto, dalle bestemmie adulte dei figli dei massari che giuocavano, sotto il sole, nella strada fradicia di polvere. Una dolce sonnolenza mi cantarellava sulle ossa, mi sentivo tuttavia come sospeso a mezza altezza, avvertivo qualcosa di inedito, quasi il principio di una commozione alla gola. Improvvisamente si spalancò la porta della veranda e comparve mio padre, accigliato, pallido. Va' a chiamare il dottore, mi disse, il telefono non funziona: al centralino staranno dormendo. Mi alzai pigramente e stirandomi dissi che sarei subito andato. Ero abituato al fatto che mia madre stesse male sicché non diedi peso alle parole di mio padre, solo mi colpì, più tardi, cammin facendo, una frase: di' al dottore che la mamma ha freddo. Eravamo nel mese di luglio, in Sicilia, in una campagna affogata nel sole dell'Etna, e mia madre sentiva freddo. Quando varcai il cancello, i figli dei massari mi si scaraventarono addosso come cuccioli felici. Rotolammo per terra, in mucchio, tuffandoci nella polvere alta e spessa che odorava di cartucce da caccia. Debbo andare, dissi, dopo che mi fui rialzato, ma quelli mi trattennero offrendomi cetrioli freschi da mangiare. Li sbucciavano rapidi con un coltellino, non buttavano via la scorza fresca: l'applicavano sulla fronte e sui polsi. Dava un refrigerio bello, annullava, per un momento, il caldo l'afa le cicale il volo pigro dei calabroni. Debbo andare a chiamare il dottore, dissi, la mamma sta male. Si fecero seri. Povera signora, dissero. Avevano di nuovo il viso duro dei contadini, colmo di rassegnazione mal sopportata. Un ragù a consumare Il Dottore abitava una casa bassa e tozza, a un chilometro dalla nostra villa. Non c'erano alberi attorno alla costruzione, il giardino era incolto, fiori gialli crescevano dappertutto in lotta continua con voraci galline. Il Dottore viveva sei mesi nella casa di campagna, solo con una vecchia domestica e il suo rancore. Sua moglie lo aveva abbandonato subito dopo un parto infelice. Lui teneva l'espressivo feto in una boccia piena di alcol denaturato, sul caminetto. Aveva molti libri ma nessuna voglia di leggerli. Gli altri sei mesi dell'anno li passava a Parigi. E' bravo, dicevano, però piglia tutto sottogamba. Forse, a pensarci bene, era solamente un saggio. Mi arrampicai sulla cancellata per suonare Ù campanello. Il suono vibrò petulante nella casa vestita di silenzio, oppressa dalla calura. Suonai ancora, a lungo, ma nessuna porta si apriva: tutto sbarrato, ostile. Un cavallo nitrì dietro l'uscio sgangherato della stalla che, dopo un po', fu aperto per far comparire donna Micia, la domestica. Aveva i capelli scarruffati, d'un grigio sporco, il viso da demente. Sotto il leggero vestito di mussola viola era nuda; i seni flaccidi le arrivavano ai fianchi; i piedi erano arabescati di sporcizia, mansueti. Grattandosi furiosamente la testa mi disse: che vuoi a quest'ora che i cristiani riposano? Non mi aveva riconosciuto, mezza ubriaca di sonno e vino com'era. C'è il Dottore?, dissi, mia madre sta male. Ma tu sei il figlio della Russa, sorrise patetica, ora lo chiamo. Con due balzi da capra raggiunse la casa e si diede a picchiare a palme aperte, contro le persiane, gridando, con una certa allegria disperata: Dottore vi chiamano, aprite Dottore, la Russa sta male. La persiana fu aperta con violenza da un braccio irato e la donna si ritrasse ululando; era stata colpita alla fronte, il sangue spicciava nero e impetuoso sporcandole le mani portate a difesa della ferita. Sta' zitta, disgraziata, disse il Dottore con voce villosa e donna Micia si tacque di botto. A quattro piedi, girò dietro la stalla. Aveva alzato il vestito per tamponare la ferita con l'orlo della sudicia veste: le ossa bucavano la pelle candida ai fianchi aguzzi da asina tubercolotica. Anche il Dottore era nudo. Alto e peloso, calvo, sudava orribilmente, guardandomi con occhi vivi. Minuscoli e azzurri sembravano una cosa a parte, posata su di un marmo. Verrò stasera, mi disse, adesso lasciatemi in pace. Ho il ragù sul fuoco; debbo badarci. Il mio ragù. A ridosso del caminetto stonava un tavolino su cui ardeva un fornello a spirito: bassa la fiamma per il gorgoglio catramoso d'una pentolina colma di ragù. Il ragù si cuoce da solo, magari durante dodici ore, bisogna, però, destarlo ogni tanto dalla sua sussiegosa pigrizia ccn un piccolo mestolo di legno. Era quello che il Dottore stava facendo. Grazie alla finestra spalancata giungeva alle narici l'odore del ragù: pigro, sensuale, torbido. Ne erano impregnati lo studio, i libri, il boccione col feto. Mia madre ha freddo, insistetti. Come?, fece lui: cribbio, allora vengo subito e spalancò anche l'altra metà della persiana per far luce nella grande stanza saccheggiata dai libri e dall'odore del ragù. Raccolse gli indumenti sparsi per terra e cominciò a vestirsi con movimenti goffi ma rapidissimi. Afferrata, poi, la cassetta dei ferri scavalcò il davanzale e con due sgambate fu alla stalla. Armò in un battibaleno il calesse, costringendo con pugno di ferro il cavallo tra le stanghe. Donna Micia, intanto, aveva aperto il cancello. Il suo viso era un impasto di sangue, fuliggine e cenere. S'era medicata a modo suo. Brava, disse il Dottore, domani non avrai più niente. E scusami, non l'ho fatto apposta. Vossia benedica, rispose la donna scostandosi per lasciar passare il calesse. Vuoi vedere, mi disse il Dottore, non appena fummo sullo stradale, vuoi vedere che questo figlio di buonamadre d'un cavallo consunto lo faccio volare, lo faccio? E, detto fatto, calò sul groppone del sauro una scudisciata che fece esplodere la bestia in una corsa pazza. Arrivammo alla villa in pochi minuti, avvolti nella polvere secca e acre. S'era levato lo scirocco. Con l'inoltrarsi del meriggio cominciarono ad arrivare automobili e carrozze. Tante. Venivano dalla città o dalle ville vicine. Il centrali¬ no aveva ripreso a funzionare e il telefono chiamava alla villa gli amici stretti, i parenti veri. Era Carmelina, la governante di casa, a telefonare. Quando mi vide entrare nel tinello - s'era fatto quasi buio -, scoppiò in lacrime. Poveri bambini, disse, poi mi ordinò di andare da Anna che faceva da cameriera, anche da lavandaia, ma era bravissima cuoca. Mirko e Marussja erano contenti di mangiare in cucina. Frutta cotta e latte, uovo alla cocca, come diceva Anna, biscotti: facevano festa alla solita noiosa cena. La novità li elettrizzava. Anna aveva gli occhi rossi e ad un certo momento mi disse: beati loro che non capiscono, sono tanto piccoli. Tu invece poverino chissà quello che provi. Ma io non provavo niente. Solo mi sentivo soffocato da una coltre di incredulità e avevo un gran sonno. Il campanello interno suonava continuamente accendendo una lampadina e un numero ogni volta; le cameriere scappavano rapide, tornavano con gli occhi rossi. Ordinavano caffè e liquori e ghiaccio. I parenti, gli amici avevano sete. In maggior parte bivaccavano in giardino poiché lo scirocco soffiava senza posa ammucchiando nel cielo scuro nuvoloni di pece. Parlottavano tra di loro, furtivamente. Poi si accesero le lampadine multicolori che servivano per le feste. Molti erano in abito da sera - la telefonata li aveva raggiunti tardi -, sembrava proprio che si riposassero tra un ballo e l'altro. Giravano i vassoi. Ogni tanto qualcuno si affacciava dalla balaustra e chiamava giù. Subito una macchina partiva per tornare di lì a poco. Dietro il cancello i contadini, a gruppi, biascicavano commenti. Sembrava proprio che nella villa ci fosse una festa. Soffice, insinuante, bellissimo, accarezzandosi compiaciuto le mani e la barba che aveva curatissime, dispensando lievi buffetti al fiore innestato all'occhiello della giacca cucita a Londra, il Professore sembrò illuminare col suo ingresso la cucina. Sorrideva con la sua aria affabile di mascalzone gentile. Il Professore aveva operato mia madre di quel male senza misericordia di cui nessuno, anche allora, osava pronunciare il nome. Per mia zia Nadia il Professore era un santo, per il Dottore un ingrassatore di cimiteri, per mio padre l'ultima speranza. Per mia madre non so: lei viveva serena la lenta agonia implacabile della sua giovine vita. Sorridendo. Voglio mangiare, disse soave¬ mente imperioso il Professore. Adesso, qua?, interrogò turbata Anna. Che c'è di pronto?, io voglio mangiare. La telefonata m'interruppe il pasto, avete capito?; sono arrivato immediatamente ma digiuno. Voglio mangiare, ho detto. Rassegnata, Anna apparecchiò un posto sul tavolone di marmo, mettendogli davanti un piatto enorme di melanzane alla parmigiana. Guardavo incredulo il Professore che intanto s'era seduto a quel desco improvvisato e tutti e tutto ignorando si versava da una bella bottiglia di cristallo, appannata dal recente soggiorno in ghiacciaia (in quel tempo non c'erano ancora, a Catania, i frigoriferi; s'usava la ghiacciaia, due volte al giorno venivano a rifornirla di azzurrognole balate di ghiaccio), un dito di vino bianco di Salaparuta. Buono, disse a se stesso schioccando la lingua biforcuta. Poi assalì le melanzane. La forchetta andava su e giù dal piatto alla bocca. Una freccia. Il coltello affondava nella polpa sugosa, bianconera, intrisa di mozzarella e basilico, di pomodoro, veloce e crudele come un bisturi impazzito. Gli occhi del Professore erano diventati due fessure allarmanti: utili feritoie mirate sulle melanzane alla parmigiana. Un rivolo sottile di sugo colava dall'angolo sinistro della bocca sulla barba coltivata con le forbici. Il Professore mangiava. Assorto e deciso, dimentico di tutto, di noi che eravamo in cucina, di mia madre che aveva freddo. «Bombole d'ossigeno», gridò dall'alto la voce del Dottore. E nel silenzio vibrò come una scarica invisibile. Lontano, oltre l'Etna, brontolava il tuono. Due automobili partirono veloci. Con una pioggia di passi rapidi, gli ospiti salirono in casa, entrarono nel grande salone dalle cui vetrate aperte prorompeva lo sfavillio dei lampadari. Le luci multicolori del giardino si spensero. E tutt'intorno fu grave silenzio. Venne la governante. Credevo proprio si fosse dimenticata di noi. Marussja e Mirko dormivano da un pezzo con la guancia sul tavolo, bocca a bocca. Il loro respiro era lieve. Odoravano di fiume. Tu vieni qua, mi disse la signorina Carmelina. Tua madre ti vuole vedere. Il suono della sua voce non era mai stato così aspro. Lungo il corridoio che portava alle stanze da letto dei genitori, erano tante le persone. Parenti, amici. Si scostavano al mio passaggio, in silenzio, come ladri colti in flagrante. Qualcuno mi voltava le spalle. Dietro una porta, il pianto isterico di zia Nadia. Lisofbrmio, sudore. Lo scirocco ingommava i muri. Domattina non ci sarò più Mia madre sorrideva. Le avevano messo tanti cuscini dietro le spalle, una infermiera le teneva il beccuccio della bombola vicino alla bocca. Mio padre stava ai piedi del letto, immobile, la faccia rotta dalla disperazione. Goriunka, mi disse mia madre con pochissima voce e fece segno, appena appena, che mi avvicinassi. La baciai sulla fronte sudata. Goriunka, alitò: domani mattina io non ci sarò più, non potrò dirti quello che devi sapere prima che me ne vada. D'un tratto la faccia bruna di mio padre fu tra la mia e la sua. Sciocchezze, disse con voce di pianto, ma mia madre sorrise: lasciami parlare, insistette, lo sai che non sono sciocchezze. Ricorda figliuolo che nella vita avrai un solo amico, tuo padre. Io ti lascio questo ammonimento: non stancarti mai di andare avanti, di galoppare nella vita, come un cosacco e non dimenticare di farti la croce: ogni mattina, ogni sera. Adesso va', sospirò, buonanotte creatura; e sporse le labbra per baciarmi. Erano leggere, come di carta velina, disperatamente fredde. Sentii di colpo un gran vuoto al posto del cuore. Era come se mi stessero succhiando l'aria via dalle orecchie mentre il sangue mi batteva contro i timpani. Stavo affogando nella disperazione ma non volevo aggravare la pena di mio padre e così m'aggrappai alla mano che il Dottore mi porgeva quasi fossi un naufrago cieco. Ma quella mano sapeva di ragù, sicché l'allontanai nauseato sparando gli occhi sul Professore che con mossette angeliche sollecitava la mia uscita da tutto quell'insopportabile dolore. Sul riparto sinistro della barba del Professore era rimasta una porziuncola di melanzana alla parmigiana. Vibrava impercettibilmente, nera come una mosca impigliatasi in quel pelo sulfureo. Nella notte venne il temporale. Vento, tuoni, fulmini, grande pioggia. Una persiana sbatteva a intervalli regolari, implacabile. Gemevano le fessure, l'acqua scrosciava sui davanzali e sulle piante. Un temporale d'estate, siciliano, odoroso di elettricità, di resina e di alghe marine. Attraverso le persiane entrava un'aria nuova, Mirko e Marussja dormivano lietamente. Anch'io cedetti al sonno. Mi svegliai di soprassalto. Era il primo giorno. Non pioveva più, tutto respirava leggero e fresco intorno, pulito. Corsi a piedi nudi sino alla finestra, allentai gli spazi delle persiane. Qualcuno saliva ansimando la scala di marmo lavata dalla pioggia, su cui guardava il davanzale. Chiesero: come va? La risposta la diede il Dottore: è morta che è un minuto, disse. La sua voce sembrava il gemito di un animale ferito. Igor Man E il dottore divorò la sua «parmigiana» senza badare a nulla Una dolce sonnolenza mi canterellava sulle ossa Mi sentivo sospeso a mezza altezza Improvvisamente si spalancò la porta della veranda e comparve mio padre, accigliato, pallido ò Igor Man: «Quella mano sapeva di ragù, sicché l'allontanai nauseato»

Persone citate: Brava, Buono, Donna Micia, Dottore, Igor Man, Vento

Luoghi citati: Catania, Londra, Parigi, Salaparuta, Sicilia