Occhetto io tradito da Ligaciov-D'Alema

« Sta per uscire «Il sentimento e la ragione», il saggio-confessione dell'ex segretario del pds « I miei anni di ferro e di fuoco » Occhetto: io, tradito da Ligaciov-D'Alema LA BIOGRAFIA POLITICA DI ACHILLE PROMA ER cinque anni, gli anni «di ferro e di fuoco» compresi tra la svolta della Bolognina e la mesta uscita di scena come segretario del pds, confessa di aver vissuto come un «innocente che si sente braccato», un uomo «giusto» di cui i simili auspicano crudelmente la «caduta» e persino il «disonore», un capitano coraggioso sabotato da una ciurma infida e da ufficiali riottosi perché «a bordo c'è chi spera nel naufragio» e addirittura c'è chi quel nocchiero «lo vorrebbe buttare a mare». E alla fine lo hanno | davvero «buttato a mare», Achille Occhetto, liquidato e accantonato come una «vittima sacrificale», bersaglio incolpevole di una cricca di congiurati che, al termine di di un prolungato e sotterraneo «lavorio che aveva come obiettivo quello di indebolire la figura del segretario», ha cercato non il normale «ricambio», ma l'«umiliazione di un leader che non era tale perché aveva vinto il concorso a premi di qualche settimanale frivolo». E a tre mesi di distanza quel senso di «umiliazione» brucia ancora, scava dentro, alimenta (e sovente intossica) le pagine de II sentimento e la ragione, il libro in uscita da Rizzoli cui Occhetto affida il compito di annunciare il Grande Rientro nella politica. Un'estate trascorsa nella «macchia maremmana» in compagnie dell'intervistatrice Teresa Bartoli a dettare furori e rimpianti, struggimenti e rancori. A rimuginare sugli anni che lo hanno visto indiscusso protagonista della vita politica italiana. A massaggiare le piaghe di un Ego ferito. A raccogliere ricordi, sapori, frammenti di vita, letture, passioni e abbandoni. A testimoniare l'infrangibilità dei sogni di chi ancora vagheggia «carovane» in cammino e «un '68 all'ennesima potenza». A intingere la penna nel veleno, se occorre, perché accanto (o sotto) le «nuove frontiere» e il «germe fecondo della contaminazione», ci sono sempre conti più terra terra da saldare, faccende di un passato troppo presente da sistemare: «Ricordo che già dopo le elezioni politiche era venuto da me un deputato di Gallipoli...». Cioè «era venuto» da lui Massimo d'Alema, il successore. E cosa era andato a dire «il deputato di Gallipoli» al segretario del partito? A «dirmi che al congresso dovevo lasciare, perché non sapevo dirigere il partito, perché ormai con la vittoria del berlusconismo si era aperto un ciclo totalmente nuovo - roba da marziani! - della politica italiana, e in buona sostanza io sarei sparito per una sorta di obsolescenza tecnica perché avevo fatto il mio tempo, perché dovevo essere laico e capire che si poteva fare politica in tanti modi». Al tempo di questo amichevole suggerimento, D'Alema era ancora per tutti i giornali «numero due» del pds. E Occhetto, che è molto sensibile a ciò che di lui scrivono i giornali (tanto da rievocare a ogni pie sospinto i titoli della sua vita, reale o semplicemente immaginata: («Risorge Occhetto», «forse basterebbe citare Le Monde che ha scritto "Occhetto..."», «già vedevo i titoloni dei giornali: "Il pds affonda Ciampi"», «Domani i giornali titoleranno "Chi è Occhetto?"», sente ancora ronzare nella testa quell'ossessionante «numero due» che un giorno o l'altro avrebbe potuto diventare, come in effetti è accaduto, «numero uno». Non può resistere all'impulso, non può mortificare l'istinto. Deve scrivere del «numero due». Ma ecco come: «Ligaciov - il numero due di Gorbaciov - mi aveva appena finito dire, mentendo come Giuda...». Ligaciov. Sintesi e incarnazione di ciò che più di ogni altra cosa getta sale sull'animo esulcerato di Occhetto e cioè il conservatorismo del partito che si traduce in una sorda ma coriacea «resistenza interna»: «Ciò che rende come poltiglia malata la mia esistenza, la mia coscienza e sì, diciamolo, la mia anima,è la sensazione di inspiegabili abbandoni, di sofferti intrighi, del giocare, soprattutto da parte di chi dovrebbe aiutarmi, all'incomprensione delle difficoltà oggettive che ti si parano davanti, per presentarle come sintomo di incapacità e di cattiva volontà». Ecco il «Ligaciov» che Occhetto non perdona: il compagno che dice di stare con te ma si «attarda in vecchi schemi di gioco», che dovrebbe esserti solidale e invece «cerca di ridicolizzare, con la supponenza del calligrafo, posi- zioni che nel vecchio mondo appaiono errori». Con «Ligaciov» («non mi interessa fare nomi, magari lo lasciamo individuare ad un nuovo sondaggio del Venerdì di Repubblica») la pace, il perdono, la riconciliazione non sono possibili. Casomai il ramoscello d'ulivo lo si può agitare con i vecchi nemici. Con Cossiga, che pure pardi Occhetto come di uno «zombie con i baffi», ormai è acqua passata. E Craxi, l'eterno antagonista Bettino Craxi oggi in difficoltà? Addirittura un «amico possibile», «mancato» ma pur sempre «possibile». E Alessandro Natta? «Comprendo tutta l'amarezza di Natta per quella vicenda...», «forse non ha compreso il carattere del tutto sincero ed aperto dei miei rapporti con lui». Risentito col nemico «interno», indulgente con quello esterno, sparisce in queste pagine rocchetto «spiritoso», il battutista celebre, il vulcanico inventore di formule immaginifiche. L'Occhetto cogitabondo e autobiografico del libro non disdegna invece l'automonumentalizzazione con punte stilistiche che rasentano l'eccesso dell'epica autocelebrativa: «Sentivo che la tensione positiva attorno a me era di nuovo molto forte...»; «i dardi della po- lemica hanno coperto il sole. Sotto i nembi della tempesta c'è di tutto: la bellezza tersa delle idee, il disincanto di chi si sente tradito dalle antiche convinzioni, la paura di un nuovo che è frutto del coraggio ma figlio della sconfitta»; «le mie ultime parole, ferme e serene, sibilarono dunque come frustate che invitavano al galoppo». Né l'impeto liricheggiante di Occhetto sembra in taluni passi frenato dalle inibizioni del pudore autocensorio. Dalla rievocazione della «tavolozza» di colori maremmani scrutati dall'erborista neofita («...fino al rosseggiare dell'acero e delle sfrangiate foglie della quercia, per sprofondare nelle ombrosità cupe del verde foncé dei lecci e dei mirti») all'incantato abbandonarsi nelle scansioni del giorno («l'abbagliante squallore del mattino», «l'assolata e intensa febbre del mezzogiorno» e il «tiepido, sognante tramonto»). Dai ricordi del viaggiatore impenitente, girovagante tra le calcadas di Lisbona, le Alléen di Berlino, gli squares di Londra, le ramblas di Barcellona e i boulevards parigini (che emanano «profumi antichi di pastis e di sinistra»), alla rievocazione di squisite sensazioni gastronomiche: la portoghese poejada «col formaggio fresco e con le uova» nonché «la borragine fritta di Luciana», vero e proprio «trionfo prelibato della foglia». E poi un profluvio di citazioni letterarie: da Goethe a Kierkegaard, da Dostoevskij a Thomas Mann, da Seneca al Molnar della via Pài, da Joseph Roth a Italo Calvino. Montaigne e Umberto Eco, Pavese, Maurensig, Pessoa, Tabucchi e, a chiudere il libro, l'Alessandro Baricco di Oceano mare. Nessuna citazione cinematografica. Nessuna allusione a musica e canzoni (sebbene «in questo Natale insonne, tra abeti carichi di neve, Aureliana cerchi di insegnarmi a cantare»). Motivi, pensieri e intenerimenti che scandiscono la ricostruzione più espressamente politica della vicenda italiana di questi anni. Il terremoto di Tangentopoli, innanzitutto. E, insieme, la rivelazione che il segretario del pds, nel cuore di una notte del settembre di un anno fa, si era messo a scrivere alle «care compagne» e ai «cari compagni» una lettera di dimissioni: «Un atto di dignità e di lotta militante per la verità a cui chiamo tutto il partito». Poi la rievocazione delle giornate difficilissime che tormentarono il pds indeciso se far parte o no del nuovo governo Ciampi. Giornate di feroce lottia interna. Occhetto era decisamente per il sì, ma altri compagni, D'Alema in testa, «erano contrari» anche se «lasciarono fare ma con molto mal di pancia e molti dubbi». Dubbi rinfocolati dal voto a favore di Craxi a Montecitorio. «Quella giornata rimane per me ancora un mistero», «sono arrivato a pensare che si sia trattato di una coincidenza voluta da chi in quel governo proprio non ci poteva vedere», dice Occhetto. E l'intervistatrice Teresa Bartoli che incalza: «E' arrivato a pensare che tra i voti che salvarono Craxi ci fossero anche quelli di qualche pidiessino, magari qualcuno di quelli contrari all'ingresso nel governo?». Risposta: «Mai. Lo escludo nel modo più assoluto. Siamo persone perbene». Persone perbene, eppure capaci, ammette Occhetto, di compiere l'«errore» di non restare subito a fianco di Ciampi. Un «errore», appunto: «Lo sapevo nel momento in cui lo commettevo. Ma sono stato obbligato a farlo, visto che nel partito non c'era la maggioranza per decidere diversamente». D'Alema, ancora lui. Il successore, l'oramai «numero imo» verso il quale Occhetto non risparmia frecciate, colpi e colpetti, critiche e allusioni. «D'Alema usò piccole frasi che finivano per corrispondere significativamente alle attese che si erano determinate». D'Alema che giudica la svolta del suo predecessore in modo «autolesionista» e «privo di fondamento». D'Alema che «mi diede persino del Pulcinella». D'Alema che col decreto Biondi non si schiera col «partito dei giudici», mentre «io ho sentito il dovere di mandare un messaggio di solidarietà ad Antonio Di Pietro». Questo D'Alema è ora a capo di un partito che oramai Achille Occhetto sente come una «caserma» mentre oggi è il caso di salire sulla «carovana» che «deve guadagnare la frontiera». «Dentro» il pds, sì, ma soprattutto «oltre». Il che significa che il ritorno di Occhetto alla politica attiva dopo tre mesi di esilio volontario non avrà come orizzonte il partitocaserma per di più guidato da una corrente («D'Alema rispose che lui non poteva non rispondere ai compagni che a lui facevano riferimento») ma in una variopinta «carovana» meno appesantita da «organigrammi» e rigide gerarchie» interne. Dove, tra l'altro, non è escluso che si riproponga un dualismo oramai impossibile entro i confini del pds: «Chi avrà più filo, tesserà più tela». A noi due, Ligaciov. Anche se «fuori sento un gran vuoto». Pierluigi Battista «Hanno detto che non sono un leader solo perché non vinco i sondaggi dei settimanali» «Anche Berlinguer si chiedeva se cambiare nome al partito» Da sinistra il segretario del pds Massimo D'Alema ed Egor Ligaciov l'ex numero due di Gorbaciov Umberto Eco e Feodor Dostoevskij due autori citati nel libro di Occhetto A sinistra, l'ex leader della Quercia Achille Occhetto Sopra: Enrico Berlinguer

Luoghi citati: Barcellona, Berlino, Gallipoli, Lisbona, Londra