Radford di Simonetta Robiony
Radford Radford «Quel postino era un eroe» VENEZIA DAL NOSTRO INVIATO Michael Radford somiglia a Gabriele Salvatores: sorriso infantile e calvizie precoce. Anche la dolcezza di tono è la stessa. Regista de «Il postino», il film che Massimo Troisi ha prodotto, riscritto, interpretato, ma non ha potuto vedere perché è morto dodici ore dopo aver girato l'ultima scena. U film racconta dieci anni di amicizia che hanno prodotto un solo lavoro comune: questo. «Di Troisi mi avevano parlato in Inghilterra, dicendomi che era bravissimo, e aveva fatto un lavoro di grande successo: "Ricomincio da tre". A me serviva un napoletano che potesse fare se stesso in "Another time, another place". Ci parlammo al telefono: ma lui non conosceva l'inglese e io stavo studiando l'italiano con le cassette. E poi Troisi non voleva venire in Scozia. Allora scelsi Mauriello, su suggerimento di Eduardo De Filippo che me lo garantì come un napoletano verace. Il film a Troisi piacque molto. Mi chiamò per dirmi che gli era parso bellissimo e mi raggiunse a Londra per conoscermi. Aveva uno spirito sottile, ironico, sottotono, molto anglosassone, che si incontrava perfettamente con il mio. Ma io sono un regista inglese. Conosco bene l'Italia dove vive mia suocera che fa la scrittrice, sta in Umbria e ha voluto che mio figlio Felix nascesse a casa sua. Però non me la sentivo di girare un film come se l'Italia fosse il mio Paese. E lui era un italiano, molto radicato nella cultura della sua gente, senza nessuna voglia di andare all'estero per diventare un altro. Avevamo tutti e due una gran voglia di lavorare insieme, ma che potevamo fare? Finalmente tre anni fa Troisi portò con sé in Inghilterra questo libro di Antonio Skarmetà intitolato "Il postino di Neruda". «E' cileno - obiettai -. A che serve mettere tra noi anche un cileno?». La storia comunque era adatta a tutti e due e non abbiamo mollato. Purtroppo, quando sono cominciate le riprese, Massimo Troisi stava già molto male: l'operazione al cuore non aveva funzionato e lui aspettava il trapianto. Più di due ore al giorno non poteva girare. Era stanchissimo, ma non arreso. Per non affaticarlo, tutte le volte che si poteva, abbiamo usato una comparsa. Lui credeva con forza a questo film e ha retto fino in fondo. E' stato il suo atto di silenzioso eroismo». Simonetta Robiony
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