Venezia alla caccia d'un Leone italiano
Si apre questa sera la 5 la Mostra del cinema con una trentina di registi del nostro Paese Si apre questa sera la 5 la Mostra del cinema con una trentina di registi del nostro Paese Venezia, alla caccia cFun Leone italiano L'inaugurazione con l'ultimo film di Massimo Troisi VENEZIA DAL NOSTRO INVIATO Con la faccia bella, fragile, comica e perduta di Massimo Troisi ne «Il postino» di Michael Radford, l'Italia inaugura stasera la cinquantunesima Mostra e una presenza del cinema nostro che raramente è stata tanto nutrita: una trentina di film, in concorso o fuori concorso, lunghi o corti. Se meravigliosi, interessanti o superflui, si vedrà. Sono troppi? Rispetto all'impegno, alle aspirazioni o alle velleità degli autori, alle poche occasioni che i registi italiani hanno d'essere seguiti con attenzione o d'alimentare discussioni anche accanite e vitali, certo no. Rispetto all'internazionalità della Mostra sì, senz'altro: l'abbondanza nazionale provoca, come tante volte a Cannes, un effetto spiacevole di provincialismo e autoindulgenza. Rispetto al rapporto tra il cinema italiano e il suo pubblico, sono sicuramente un'esagerazione: nell'ultima stagione (agosto 1993-luglio 1994) una trentina dei 106 film prodotti dall'industria o dal¬ l'arte di arrangiarsi nostre neppure sono arrivati a uscire nelle sàie; tra i dieci film di maggiore incasso ne figurano soltanto due con italiani, «Il figlio della Pantera Rosa» con Roberto Benigni e «Piccolo Buddha» diretto da Bernardo Bertolucci; i registi tradizionalmente più ammirati (Bellocchio, Olmi, Carpi, Monicelli, Cavani) o più popolari (Sordi, Castellano e Pipolo) hanno avuto incassi così modesti (meno di un miliardo, sovente molto meno di mezzo miliardo) da far pensare che gli spettatori li abbiano abbandonati; il mercato ita¬ liano è dominato al settanta per cento e oltre, come tutti i mercati europei, dal cinema americano. Però quella di Venezia non è una Mostra-mercato né una Fiera dell'Industria & Commercio né un Festival dell'Audience: e nonostante tutto potrebbe anche toccare all'Italia quel Leone d'oro che non vinciamo dal 1988 de «La leggenda del santo bevitore» di Ermanno Olmi. Fellini se n'è andato, i cineasti di talento restano molti. E resta grande, forte, la sensibilità al presente drammatico: se con «Gene¬ si» Olmi risale alle origini senza alcun contatto con la religiosità intollerante, se Pupi Avati si confronta in «Dichiarazioni d'amore» con quel 1948 che pareva il tempo di tutte le speranze italiane, gli autori più giovani vedono il disordine disperato del mondo, guardano la profondità delle crisi postcomunista e postcapitalista. La miseria d'Albania, il sogno del benessere, la sconfitta come nemesi della furbizia sfruttatrice («Lamerica» di Gianni Amelio); il destino dei rifiutati, analogo in Ungheria e in Italia («Il toro» di Carlo Mazzacurati); la brutalità acciecata dei conformismi di gruppo, la violenza feroce dei frustrati («Il branco» di Marco Risi): insieme con la perdita irrimediabile del lavoro e del futuro raccontata da Daniele Segre tra i minatori sardi della Carbosulcis in «Dinamite», presente in una rassegna al festival, sono i temi contemporanei cruciali, certo non soltanto italiani ma affrontati dagli italiani come da pochi altri. Sono l'essenza della tragedia, nei Novanta. Lietta Tomabuoni I cineasti di talento restano molti: e resta la sensibilità al presente drammatico Anche un omaggio all'attore napoletano: testimonianze dei colleghi e le sue impressioni sulla tv A sinifilm dprogr«Lamdestrail film A sinistra una scena di «Tres irmaos» (Tre fratelli), il film della regista portoghese Teresa Villaverde, in programma oggi. Qui sopra Gianni Amelio, autore di «Lamerica» e Pupi Avati («Dichiarazioni d'amore»). A destra Massimo Troisi, in «Il postino», il film di Radford, sua ultima interpretazione
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