GUARESCHI in Germania per dimenticare

in viaggio con papa'. «Dopo la galera partì per ritrovare se stesso» in viaggio con papa'. «Dopo la galera partì per ritrovare se stesso» GUARESCHI in Germania per dimenticare RONCOLE VERDI (Bussato) DAL NOSTRO INVIATO A 49 anni, nel '57, finalmente Giovannino Guareschi riuscì a concedersi una vacanza. «Ha sempre lavorato come un matto. Cambiava scrivania. Ma rimaneva chiuso in una stanza a scrivere, disegnare, dipingere, anche per giorni interi. Mangiava un panino e bicarbonato, per tenere a bada l'ulcera da cui era tormentato. Quando finiva il suo "compito", veniva fuori con la faccia stravolta e i capelli sugli occhi. Negli ultimi anni per ragioni di salute passava le estati a Cervia. Diceva: "Amici fidatissimi mi giurano che qui c'è il mare. Gli credo sulla parola. Io però non l'ho mai visto"», ricorda Alberto, il figlio maggiore che - da quando è nato, nel '40 - è diventato uno dei protagonisti delle «cronache familiari» del padre, quegli scritti che in milioni di copie hanno fatto il giro del mondo: il racconto «Le nefandezze di Albertino», del '41, segna il suo esordio nello scenario di personaggi, storie, riflessioni, invettive, sberleffi, polemiche, ironia, umorismo che Guareschi ha creato per decenni con vulcanica passionante. Quella sua prima vacanza fu una «vacanza-lavoro». Partì in autunno, nei giorni dell'«estate di San Martino». «Mi portò con sé come per specchiarsi nei miei occhi, confrontare le sue emozioni con le mie. Voleva ritornare alle radici. Ritrovare se stesso, la parte migliore di sé. Ritrovare quel "Giovannino vestito di stracci e di sogni" che era stato un tempo. Io avevo 17 anni», dice il figlio. Partirono in macchina. «Era depresso, non riusciva più a scrivere. Si sentiva svuotato e solo. Sì, era il giornalista più celebre d'Italia, uno scrittore tradotto anche in libanese e per gli esquimesi, il padre di Peppone e don Camillo che - arrivati sullo schermo - erano diventati campioni mondiali d'incasso. Riceveva centinaia di lettere al giorno. Venivano a Roncole gli inviati di tutte le riviste e le televisioni straniere. Ma l'Italia degli Anni 50, con i rigidi steccati delle ideologie e delle conventicole, lo aveva etichettato come un vecchio arnese fascista, uno scrittore provinciale, un nostalgico, un anticomunista immondo, l'esponente di una letteratura da lambnisco. I critici lo oltraggiavano. Aveva il dono di dire scherzando cose serissime. Ragionava con la sua testa. Usava l'umorismo come un'arma contro la retorica di destra e di sinistra. Riuscì ad averli tutti nemici, i clericali e gli anticlericali, i comunisti e i fascisti, la de e il psi. Negli altri Paesi gli dedicavano seminari, convegni, premi. Lui commentava: "In Italia mi igno rano. Mah! Si vede che si sbaglia no all'estero". «Alla vigilia dei suoi cinquan t'anni non aveva più voglia di lot tare. Qualcosa si era spezzato in lui, dopo la condanna che gli era stata inflitta per aver duramente attaccato De Gasperi su Candido, e il trauma del carcere. Aveva passato quattordici mesi in isola mento, fra angherie e umiliazio ni, squassato dall'ulcera, convin to di aver ragione. Non aveva vo luto ricorrere in appello perché un'assoluzione per insufficienza di prove avrebbe lasciato sempre il dubbio sulla sua integrità mo rale: "Non ho il temperamento dell'aspirante martire e dell'aspirante eroe - sosteneva -. Io sono un piccolo borghese, un padre di famiglia. Il mio primo dovere è insegnare ai figli il rispetto della dignità personale". Uscito dal carcere, per sei mesi era stato in libertà vigilata. Doveva sempre avere in tasca la "carta percettiva", un libretto con la copertina di tela rossa legata da una lunga fettuccia. Se lo trovavano senza, 10 arrestavano: un confinato, un sorvegliato speciale. «Era stato dentro dal maggio del '54 al luglio del '55. Ricordo le visite che gh potevamo fare, ogni quindici giorni, la mamma, io e Carlotta. Sotto gli occhi delle guardie, lui scherzava, ci raccontava cose divertenti. La mamma scherzava anche lei, rideva, fingendo che tutto andasse per il meglio. Carlotta e io capivamo benissimo che era tutta una finta per non emozionarsi e non amareggiarci. Ricordo il suo rientro a casa, la vita che sembrava riprendere il ritmo di sempre, il racconto del viaggio per incontrare alcuni amici che fece a Napoli e poi a Parigi dove fu in continuazione bersagliato dai flash dei fotografi, 11 suo ritiro ad Assisi dove era andato per due giorni - aveva fatto voto a San Francesco che, se usciva vivo dalla prigione, sarebbe andato a ringraziarlo - e dove rimase sei mesi. Era tormentato. Nell'ottobre del '57 diede le dimissioni come direttore di Candido. Voltava le spalle alla popolarità. Si era ritirato a Roncole, dove frequentava il falegname, il mediatore, il lattaio. Soltanto con loro si trovava bene. Diventava misantropo. Diceva: "Credono che sia morto, invece dormo". «Partimmo a novembre. Voleva tornare in Germania dove era stato prigioniero nei lager nazisti, come i quarantamila ufficiali italiani che dopo l'8 settembre non avevano voluto arruolarsi nelle file del Reich o aderire alla Repubblica Sociale. La Resistenza Bianca. Lì aveva conosciuto l'orrore della prigionia, ma anche la forza della solidarietà, la dignità di persone che pagarono sulla propria pelle - con la malattia, la morte, la pazzia - una scelta di coerenza. Una scelta che dall'Italia post-fascista ebbe, come ricompensa, un silenzio e un'indifferenza cui nostro padre non si sarebbe rassegnato mai. Il lager lo raccontò sempre anche come "una vera democrazia dei galantuomini". Allora aveva scoperto le buone qualità che aveva dentro: si era piaciuto. Due mesi dopo che era stato fatto prigioniero, era nata Carlotta. In due anni era dimagrito 45 chili. Il ritorno, adesso, era una sorta di rivalsa. Nel '43 era entrato in Germania da prigioniero, su un carro bestiame. Ora arrivava come un uomo libero, un giornalista. Voleva vedere la Germania con gh occhi del futuro alleato europeo, voleva incontrare i volti nuovi della Germania, i nuovi cittadini d'Europa. «La prima tappa la facemmo a Trieste, "per avere una carica di italianità, ritrovare l'amore per il proprio Paese". Andammo al sacrario di San Giusto. Ammirò i triestini, che non avevano perso il senso dell'italianità "nonostante fossero rientrati a far parte dell'Italia". Visitammo Gorizia. S'indignò per l'osceno confine che "americani ubriachi aveva tracciato intingendo la scopa in un secchio di calce". Io rimasi molto turbato vedendo persino il cimitero diviso in due. Attraversammo l'Austria. Ci dirigemmo verso Bonn. Aveva chiesto di essere ricevuto da Joseph Strauss, il ministro della Difesa. E l'appuntamento gh era stato subito fissato. In Germania si erano venduti milioni di copie dei suoi libri. Era molto popolare. Da anni. Alle elezioni del '48 il Candido - che tirava mezzo milione di copie - aveva fatto una campagna martellante contro il Fronte popolare, chiedendo a tutti di votare scudocrociato. Sul contributo dato dalla rivista e dal suo direttore all'esito del voto la stampa internazionale aveva scritto pagine e pagine. Life pubblicò la sua foto in copertina e scrisse che le elezioni erano state vinte da De Gasperi e Guareschi. In Germania uscirono giornali col titolo: "Un solo uomo ha messo con le spaUe al muro il comunismo in Italia: Guareschi". «La mattina dell'incontro con Strauss uscì dall'albergo con un'ora d'anticipo. Si era messo "il famoso completo a quattro bottoni": una tortura. Ma sbagliò strada. Si ritrovò a Coblenza. Rientrò in albergo disperato: "Ho fatto attendere un ministro tedesco per ore. Aiutami a fare la valigia. Scappiamo. Non tornerò mai più in Germania! Che vergogna! Che vergogna!". Proprio allora chiamò la segreteria di Strauss. Risposi io. Una donna gentilissima disse: "Purtroppo il ministro non può attendere oltre perché ha un altro appuntamento. Chieda a suo padre se gli va bene venire qui domani, pregandolo - per cortesia - di prendere un taxi". Ne fu sollevato e febee. Il colloquio ci fu. Lui fece domande sull'educazione che veniva data ai giovani tedeschi, su cosa gli veniva detto del passato recente, sui "punti oscuri" della storia della Germania. «Finalmente andammo a Sandbostel e Wietzendorf, gli ultimi due lager dove era stato. Si era portato dietro il diario scritto allora, per non sbaghare i posti, le date. Provò un'emozione grandissima. Rivedeva i personaggi e i luoghi che aveva raccontato in quei fogh clandestini, le situazioni e le attività di cui aveva ripor- tato indietro testimonianza coi disegni, le locandine, gh annunci che illustravano come nel campo si faceva ironia, cultura, informazione. Forse rivisse momenti che aveva rimosso. Quando fummo in un cimitero dove erano sepolti alcuni di quelli che gh erano stati più cari, si mise a cercare fra le croci. "Vai, vai a fare delle foto", mi disse. Voleva stare solo. Non voleva mostrare quanto profonda fosse la sua commozione. Credo che davanti a quelle povere croci di legno marcito abbia ritrovato quello che cercava: il Giovannino che sogna e sa nutrire speranze. Rimase a lungo silenzioso. «La sera, usciti da Wietzendorf, nel paese c'era una festa. La gente riconobbe i baffi e il viso dell'autore di don Camillo. Lo circondarono, gli chiesero: "Perché è qui?". "Per salutare degli amici". "E' la prima volta che viene?". "Sì", rispose. Del primo viaggio non volle parlare. In albergo c'era un ballo e io smaniavo dalla vogha di ballare. Mi guardavo intorno. Ero titubante. E lui condivideva il mio batticuore. "Sul quadrante della storia sta per battere un'ora fatale: Albertino deve, deve ballare con una ragazza tedesca", diceva, come in una preghiera o per uno scongiuro. Io mi feci coraggio, mi inchinai davanti a una giovane e le sorrisi. Lei fu carina. Accettò e ballammo. Mio padre esclamò sollevato: "La Germania avrà in me un grandissimo alleato!". In quella coppia che noi formavamo vedeva un auspicio beneaugurale. La mattina partimmo e la ragazza con cui avevo ballato era al distributore di benzina. Ci servì e ci salutò con un allegro "Aufwiedersehen!". Mio padre, che aveva scritto una feroce invettiva contro la "Signora Germania", avrebbe ricordato l'episodio sotto il titolo "Aufwiedersehen, signorina Germania". Era rinata in lui la speranza di un futuro diverso. Tornò a casa con una carica nuova e sentì il desiderio di comunicare ai suoi lettori l'esperienza che aveva fatto. Scrisse dei reportages per Candido che vennero raccolti in un volume, Ritorno alla base appunto. «Si mise a lavorare di nuovo a tempo pieno. Lasciò Milano, che non aveva mai amato. Scelse definitivamente la Bassa, la sua famiglia, gh amici del paese, i polli, la vigna, la terra che aveva comperato e su cui aveva investito i moltissimi soldi guadagnati riuscendo alla fine a rimetterci tutto. Scriveva, s'indignava, replica¬ va alle polemiche, raccontava, fantasticava, tirando a far tardi senza lesinare né sul vino né sul cibo. Nel '62 ebbe un infarto. Per pochissimo tempo rispeiiò i divieti dei medici. Aveva il fisico a pezzi. Ma non si arrendeva. Morì di cuore in una mattina d'estate, a Cervia, nel '68. Aveva sessantanni. La tv liquidò la notizia in 135 secondi, il Corriere della sera in quinta pagina. L'Unità scrisse: "E' morto lo scrittore che non era mai sorto". Life gh dedicò nove pagine. Ai funerali l'Italia ufficiale non c'era». Nel grande edificio fra la casa di Verdi e quella che fu l'abitazione di Guareschi, la memoria del padre non è un filo esile di ricordi. In queste sale - fino a qualche anno fa un bellissimo ristorante, ideato dallo scrittore e gestito da Alberto - c'è un immenso archivio che il ministero dei Beni Culturali ha qualificato «di notevole interesse storico». Vengono a lavorarci gh studiosi delle università straniere, i filosofi, i teologi, quanti si occupano del «fenomeno» Guareschi. Qui Carlotta e Alberto hanno dato vita al Club dei Ventitré (il padre si vantava di avere solo 23 lettori, 2 meno di Alessandro Manzoni) che ha un migliaio di soci, pubblica un foglio semestrale, promuove studi sull'opera e la figura di Guareschi, organizza mostre, convegni, premi letterari. «Ma negli Anni 80 è successo qualcosa di nuovo. Sono incominciati a venire i giovani. Incuriositi da tanto silenzio intorno a un autore che hanno scoperto magari per conto loro. Sanno moltissimo di lui. Vogliono sapere tutto. All'inizio noi non capivamo. Non sapevamo neppure come far fronte a questo interessamento. Allora abbiamo abbandonato le nostre attività per dedicarci completamente al club. Il lavoro di catalogazione è in corso, un lavoro immenso. E le richieste di notizie, di documenti, crescono», racconta Carlotta. Il lungo tempo dell'ostracismo sembra concluso. Liliana Madeo «Mi portò con lui a Cervia: era la sua prima vacanza, ma non vide il mare» «Tornammo nei lager dove fu internato dopo l'8 settembre Rivalutò i tedeschi» «Era stato dentro per un anno e mezzo potevamo vederlo solo ogni 15 giorni» b^b^b^bW «■■BEH?**"''*7 ■■M>*w^^^8r7 Giovanni Guareschi Giovanni Guareschi con la sorella davanti ad un'immagine del padre Peppone e don Camillo, i personaggi di Guareschi che lo resero famoso in tutto il mondo. Sotto, il ministro della Difesa tedesco Strauss. In basso Alcide De Gasperi: attaccarlo gli costò un anno e mezzo di galera