Fuga da Franco al moulin Rouge

QUELLA VOLTA CON PAPA'. Così il grande regista catalano scoprì Parigi QUELLA VOLTA CON PAPA'. Così il grande regista catalano scoprì Parigi LLUIS PASQUAL d QFuga da Franco al moulin Rouge PARIGI DAL NOSTRO INVIATO L'ingresso degli artisti del Théàtre Odèon si affaccia sui giardini del Lussemburgo. Lungo il porticato neoclassico che circonda la costruzione, sul lato opposto all'entrata principale del teatro parigino, si apre un bugigattolo in legno attraverso il quale si accede agli uffici. Ed è di lì che si passa, in un infuocato pomeriggio d'estate, per raggiungere l'ufficio di Lluis Pasqual. E' una piccola stanza con una scrivania e qualche sedia, un divano con un cuscino per gli attimi di riposo, le tre eliche di un grande ventilatore che pendono dal soffitto, le due finestre che danno sul Louxembourg. Pasqual ha quarantadue anni, corporatura minuta, tratti del volto precisi, grandi occhi scuri. Fondatore del leggendario Teatre Lliure di Barcellona, da tre stagioni è alla direzione del Théàtre de l'Europe all'Odèon, l'organismo voluto da Jack Lang, in cui il regista catalano è succeduto a Giorgio Strehler. La stagione passata, tutta incentrata sul teatro russo, è stata un trionfo con Claustrophobia realizzato da Lev Dodin, con i Villeggianti di Gorkij e il Roberto Zucco di Koltès messi in scena da Pasqual stesso (lo Zucco in russo e con attori russi). La prossima stagione punta i riflettori sul teatro inglese. Intanto nuovi impegni si defilano all'orizzonte di Pasqual: è stato designato responsabile della sezione teatro della Biennale di Venezia. Ce n'è abbastanza anche per questo quarantaduenne, ancora ragazzo, bulimico di lavoro che l'estate prossima farà Traviata con Muti a Salisburgo. La sua avventura è incominciata venticinque anni fa quando, finito il liceo annunciò al padre fornaio di voler lasciare il paese per andare a Parigi. A quella fuga dalla Catalogna verso la grande Parigi ne succederanno altre. Ancora a Parigi, a Barcellona, in Italia. Ma è da quello strappo che comincia tutto. La scena si svolge a Reus, un paese di 60 mila anime a 102 chilometri da Barcellona, in fondo a una Catalogna già profondamente percorsa da fermenti libertari, ma sulla quale si stende ancora come una glassa opprimente il sonnifero del franchismo alla fine. Perché proprio Parigi? «Volevo andare a Parigi perché la Francia era la libertà. Sembrerà strano ma questo concetto lo avevo imparato a scuola, una scuola franchista. Nella mia vita è stato fondamentale il fatto che Reus fosse a 102 chilometri da Barcellona. Il perché lo spiego dopo. Devo premettere che all'epoca per andare in una buona scuola occorreva andare dai preti. Ma mio padre, che è un essere molto semplice, con un grande senso biologico della libertà, quella che non si spiega, l'unica cosa che ha proibito a mia madre è stato che io andassi a scuola dai preti. Così frequentai la scuola pubblica. E la scuola pubblica franchista era il massimo del grigiore e del sordido. Nei libri grandi epoche della storia non esistevano. Scrittori importanti venivano ignorati. La seconda guerra mondiale era liquidata in cinque righe. Insomma un disastro. In Catalogna però succedeva che i grandi intellettuali della Repubblica, quelli che non erano in esilio, che non erano stati uccisi o che erano usciti di prigione, avevano la possibilità di tornare ad insegnare. Non all'università, nei licei. E a una distanza di almeno cento chilometri da Barcellona. E Reus era a centodue chilometri. Così io ho avuto degli insegnanti straordinari. La mia professoressa di francese era la figlia del ministro dell'Educazione pubblica sotto la Repubblica. La prima lezione ha messo su un disco di Edith Piaf e ha detto: Il giorno che sarete capaci di avere una emozione ascoltando e comprendendo il senso ultimo delle parole di questa canzone, allora avrete imparato il francese. Tutta la mia educazione in quel liceo era di questo tipo: un privilegio. Ci parlavano degli autori di cui non trovavamo scritto nulla nei libri. Ci dicevano del senso della libertà che non avevamo. Molto di nascosto, ovviamente. E poi c'era Perpignan, la prima città fran¬ cese oltre la frontiera, dove a sedici anni uno andava a comprare i libri, a vedere i film, anche porno. Le cose si trovavano dunque, ma a fatica: era una resistenza culturale». Quest'ansia di libertà la sentiva anche in famiglia? «Un po' sì. Mio padre faceva il fornaio. Nella casa in cui abitavamo c'era il negozio al pian terreno e poi sopra tre piani dove abitava la famiglia. C'era sempre un caldo tremendo perché il camino del forno passava in mezzo alla casa. Questo faceva sì che io al contrario dei miei compagni, d'inverno, quando arrivavo a casa da scuola, per scaldarmi mi mettessi a piedi nudi. Ma poi d'estate per andare a letto dovevi fare una doccia bollente: era l'unica maniera perché l'esterno sembrasse un po' più fresco. In famiglia eravamo mio nonno, mio padre, mia madre, una zia, mia sorella ed io. Si parlava catalano nonostante i divieti. Per me lo spagnolo era la lingua della scuola. Il catalano ha una grande tradizione letteraria, ma era un delitto parlarlo. Il fratello di mio padre è morto nella guerra civile a sedici anni. Era fra gli ultimi chiamati alla leva, quella dei ragazzini. E' morto tre giorni dopo essere partito. Una settimana e finiva la guerra. Tornata la pace, mia nonna era stata sbattuta quindici giorni in galera perché aveva salutato in catalano un cliente che era entrato in negozio. L'accusa: comunista e separatista». In questo ambiente familiare e con queste tradizioni Lei annuncia che vuole andare a Parigi. «E i miei mi dicono: vai. Parigi era un sogno raggiungibile, ma ci volevano molti soldi. Io, dando lezioni private di latino, ero riuscito a metterne un poco da parte. Mia madre mi disse: quanti soldi vuoi? E mi diede il necessario. A casa il denaro si teneva in un cassetto e ciascuno prendeva secondo ciò di cui aveva bisogno. Un giorno mio padre mi aveva spiegato: hai bisogno di soldi? guarda, lì c'è il denaro per tutto. Per la farina, per l'olio, per vestirsi e per mangiare. Prendi di lì, ma soltanto quello che ti serve. Non me lo diceva in modo grave, filosofico, in maniera molto semplice». «Dovevo prendere un treno e poi andare in aeroporto. Il treno partiva alle undici di mattino. Mio padre era ancora a letto: da buon fornaio lavorava di notte. Salii a salutarlo e lui disse a mia madre: ho sete. Lei uscì per andargli a prendere dell'acqua. E allora lui aprì il cassetto e tirò fuori altre cinquemila pesetas. All'epoca non era poco, saranno cinquantasessantamila di oggi, dunque quasi un milione. Mi guarda e mi dice: tu sai perché te li dò? E io: no. Ma come, vai a Parigi, hai diciassette anni?... Per lui Parigi era qualche cosa di molto diverso da quello che immaginavo io. Era l'eros, le donne, il Moulin Rouge, Pigalle, il sesso. E quello fu il più intimo rapporto fra padre e figlio, da uomo a uomo, che ebbi con mio padre. Arrivai a Parigi e tre giorni dopo telefonai. E mio padre mi chiese: com'è il Moulin Rouge?». Incomincia così l'avventura francese. Musei, teatri? «No. Incominciano le incomprensioni con la lingua. Io parlavo francese. Loro mi capivano. Ma quando parlavano loro ero io che non capivo una parola. Questi non si esprimevano come a Perpignan. Era un'altra lingua. Dal giorno dopo decisi di passare le giornate al cinema per imparare. Entrai in una sala alle due e ne uscii dopo aver visto il film quattro volte. Ma non rimasi lì per la lingua. Ero capitato in un cinema dove davano Zeta di Costa-Gavras. Quella storia contro i colonnelli greci era il film per me. Era come se lo avessero fatto per uno spagnolo che arrivava a Parigi morto di fame e con poche idee su che cosa fosse la libertà». Come passava le giornate? «Vivevo in uno stato di continua beatitudine. Facevo il più possibile la vita del parigino. Giri turistici, visite ai musei soltanto qualche giorno della settimana. Altrimenti, andavo in giro. Dissipavo il mio tempo. A diciassette anni ia vita è come l'eternità. Così trascorrevo le ore nelle librerie, nei cinema, a teatro. Ho visto Hair, Il sogno di una notte di mezza estate di Peter Brook, il teatro della Mnouchkine, Il giardino dei ciliegi di Strehler. Andavo anche a vedere l'operetta con Luis Mariano allo Chatelet. Non sapevo ancora che mi sarei occupato di teatro. Rimasi a Parigi due mesi. Poi dovevo tornare per andare all'università. Ma mi dissi: Parigi per me deve diventare un'abitudine, ci devo tornare ogni anno, e così feci». Ad ogni fuga seguiva un ritorno a casa. Poi venne l'università e il lavoro con un gruppo di amici con il quale incominciava a fare teatro. Nasce presto la passione per il teatro? «La mia famiglia pur non essendo ricca mi permetteva di fare tutto quello che volevo, non solo scappare a Parigi sotto il franchismo, ma andare a corsi di danza o di disegno. Anche fare teatro, se questo mi sembrava il mio futuro. I miei amavano molto il teatro. A Reus quando io ero piccolo c'erano tre sale. Uno era il teatro di lusso, rosso e dorato dove si andava una volta ogni tanto a vedere le cose speciali, le compagnie in tournée. Poi c'erano due troupe amatoriali. Una faceva la zarzuela, l'operetta spagnola, una volta al mese. Quello che frequentavamo noi era ima compagnia filodrammatica che ogni settimana metteva in scena un titolo diverso. I miei mi portavano tutte le domeniche. Facevano il repertorio catalano, quello spagnolo, Shakespeare, o magari cose leggere. Ogni titolo veniva provato una settimana e poi andava in scena il sabato e la domenica. Ofelia faceva la profumiera, Otello era il falegname del paese». Ma il teatro vero quando arriva? «Con l'università. Ho incominciato a seguire una scuola di teatro dove presto mi hanno fatto tenere dei corsi. Poi un giorno mi hanno chiesto una regia per gli allievi dell'ultimo anno. Mi sono detto: un testo di un altro? Non mi va. Così me lo sono scritto da me. Ho osato chiedere di disegnarmi le scene al più grande scenografo spagnolo di allora, Fabia Puigserver. Era come se un ragazzino che incomincia in Italia lo chiedesse a Frigerio o Damiani. Lui accettò e lo spettacolo che doveva essere presentato per tre giorni, restò in scena per tre anni e mezzo. Parlava di una insurrezione operaia all'inizio del secolo a Barcellona, la Settimana ti-agica, un fatto storico. Nessuno si aspettava quel successo. Neanche la Guardia Civil che presidiava la sala. Io dieci giorni dopo partivo per il militare e Franco moriva. Ma lo spettacolo continuava ad essere replicato. E' da lì che è nato U Teatre Lliure di Barcellona». Sergio Trombetta E per viatico una somma dipesetas da spendere a Pigalle, riservate all'eros del giovane visitatore «La Francia era la libertà. Ce lo insegnavano a scuola i professori perseguitati da Franco» RACCONTI D'ESTATI fc te* - Qui a destra, il regista Lluis Pasqual direttore della Biennale Teatro. Sopra Francisco Franco Giorgio Strehler