viaggiatori in Italia Quando a Venezia il filosofo rapì l'amante di Byron

Ma non risparmiò duri giudizi «Questa è gente malfamata con volti così belli e con animi così cattivi» viaggiatori in Italia. Quando a Venezia il filosofo rapì l'amante di Byron ANCO' poco che Schopenhauer si sposasse in Italia, dove trascorse due lunghi periodi, forse i più felici della sua vita, e dove si abbandonò alla pazza gioia. Il suo amico e biografo Wilhelm Gwinner racconta: «Ancora in tarda età s'inteneriva quando parlava di Venezia, dove le braccia magiche dell'amore lo tennero a lungo avvinto, fino a quando la voce interiore non gl'impose di liberarsene e di proseguire da solo per la sua via». E' la fine dell'estate 1818, quando parte da Dresda per l'Italia. Ha appena terminato II mondo come volontà e rappresentazione, la sua opera capitale, e sente il bisogno di viaggiare. Giunto a Venezia, scrive nel suo taccuino che chi si trova subito trapiantato in una città o in un Paese straniero, dove dominano una lingua e modi di vita diversi dai propri, somiglia a uno che sia caduto nell'acqua fredda: si trova in una temperatura che non è la sua e avverte una violenta azione dall'esterno, che quasi gli mette l'angoscia addosso. E' in un elemento estraneo, nel quale non sa muoversi con facilità. «Ma non appena si sia calmato un po' e si sia alquanto adattato all'ambiente che lo circonda e alla temperatura, si sente straordinariamente bene come il pesce nell'acqua fredda». Ormai si è'assimilato all'elemento estraneo e smette di occuparsi della propria persona, rivolgendo la sua attenzione a tutto ciò che lo circonda. Si sente immediatamente a suo agio nella città lagunare o nella «conchiglia magica», come la chiamerà poi Nietzsche. A facilitargli l'adattamento, però, c'è anche una giovane veneziana, la quale gli fa delle potenti frizioni. Si chiama Teresa Fuga ed è nata a Murano il 4 agosto del 1793. La natura dei loro rapporti risulta chiaramente da una lettera che la vispa Teresa scrisse al filosofo. Vi accluse anche la trascrizione di una poesia dialettale del poeta veneziano Pietro Buratti, intitolata La barcheta, e un Prendice, ossia'un brindisi d'amore. Riproduciamolo nella versione di Schopenhauer, che lo riportò a margine del foglio in una forma più corretta e anche a rima baciata, lasciando in sospeso solo una parola, per altro facilmente intuibile: «Faso un Brendise di cuore, / Fontana di amore, / Visetto mio bello, / Faso un Brendise fra mi ed elio. / E se qualcun si prendesse gelosia, / Alla salute di questa nobil compagnia. / Faso un Brendise da un... all'altro, / E non posso più dir altro. / Così faceva Adamo ed Eva / Quando i mangiava e beveva: / E noi, che siamo di quella rassa, / Mangiamo e bevemo, che bon prò ne fassa». A Venezia, in quel tempo, vive anche Byron, per il quale Schopenhauer si era procurato una lettera di presentazione da Goethe: «Avevo per lui una lettera di raccomandazione di Goethe. Stetti a Venezia tre mesi quando c'era anche Byron. Volevo sempre andare da lui con la lettera di Goethe, ma poi ci rinunciai del tutto. Un giorno passeggiavo con la mia amata al Lido, quando la mia Dulcinea, nella più grande eccitazione, esclamò: "Ecco il poeta inglese!". Byron mi passò davanti di corsa a cavallo e la Donna, per tutto il giorno, non potè dimenticare quell'impressione. Così decisi di non consegnare la lettera di Goethe: ebbi paura delle corna. Quanto me ne sono pentito!». Il filosofo avrebbe raccontato questo episodio al musicista Robert von Hornstein. La Dulcinea era sicuramente Teresa Fuga. Ma siccome una Teresa figura anche nell'harem veneziano di Byron, è molto probabile che sia stato il filosofo a fare le corna al poeta e non viceversa. Ma quale valore potevano avere, le corna, per un Byron che a Venezia diceva di «nuotare in un mare di puttane»? Resta comunque il fatto che in quel mare lanciò la lenza, e con successo, anche Schopenhauer, il quale, contrariamente a quel che si crede, era tutt'altro che misogino. Niente di più falso: Schopenhauer era una natura demoniaca e le donne, per sua stessa ammissione, gli dettero molto da fare. Da Venezia, senza dimenticare la Teresa, il filosofo prosegue per il Sud: «Ho visitato anche Napoli; poi, dopo aver ammirato Pompei, Ercolano, Pozzuoli, Baia e Cuma, mi sono spinto fino a Paestum, dove ho contemplato gli antichissimi, splendidi templi della città di Poseidonia, intatti dopo venticinque secoli, e mi dicevo, preso da sacro rispetto, che stavo camminando sullo stesso pavimento che forse era stato calpestato anche da Platone». Poi, sempre assetato di sapere e pieno di curiosità per tutto ciò che vede, prende a risalire la Penisola e si ferma per circa un mese a Firenze. Qui lo raggiunge la lettera di Teresa Fuga, che gli scrive fra l'altro: «... con tanto piacere ricevei la tua letara sentindo che non ti sei dimenticato di me e che conservi per me tanta premura ma credimi mio caro che ne meno io non mi sono dimenticata di te... ti sono grata sentindo che ti sei ricordato di me ogni giorno... io ti amo e desidero di vederti e viene pure che ti atendo per abraciarti e per pasare di giorni asieme... dunque mio caro ti atendo stai bene o volia di vederti a dio mio caro. La tua amica Teresa Fuga». Ed ecco il filosofo trottare di nuovo alla volta di Venezia per spassarsela con Teresa. Ci rimase fino alla fine di giugno del 1819. Il suo secondo soggiorno in Italia è più lungo del primo e ha per centro, questa volta, Firenze. Prima di partire, aveva scritto a un amico di non dargli l'incarico di «revidiren» e collezionare codices, cosa per cui non era tagliato: «Invece lei può senz'altro darmi i suoi incarichi per tutte le sue donne abbandonate e sconsolate. Me ne mandi la lista e io mi presenterò come il suo chargé d'affaires e farò tutto come se fossi lei stesso». E ora ecco come descriverà il suo soggiorno fiorentino: «Dal settembre del 1822 fino al maggio del 1823, rimasi a Firenze e trascorsi questo tempo in maniera estremamente piacevole. Il più bell'appartamento del mondo e molto comodo: molte conoscenze, specialmente con stranieri che si godono anch'essi la vita là, per lo più inglesi... resero la mia vita quanto possibile piacevole. Ero così socievole come non lo ero stato da tempo; frequentavo persino la grande società e a volte quella dei notabili, e notavo gradualmente un tale aumento di esperienza e di conoscenza degli uomini, che ritengo di aver passato quel tempo in modo molto utile. Vedere e fare esperienza è così necessario come leggere e imparare. In modo particolare mi è diventato chiaro quanto sia miserabile la vita dei nobili vista da vicino e come essi siano torturati dalla noia, nonostante tutte le contromisure. Ho studiato a mio agio le opere d'arte di Firenze e il popolo italiano mi ha fornito materia di riflessione. Si è trattato di un periodo bello, a cui ripenserò sempre con gioia». Talvolta si accompagna perfino ai frati: «Sorrido di me stesso, quando nel giardino di Boboli passeggio con un bianco domenicano e lo aiuto a sospirare per la decadenza dei monasteri». Più volentieri ancora, però, fa la corte alle fiorentine o a qualche dama straniera che soggiorna a Firenze. Ma chi è la donna von Stade, cioè di alta condizione sociale, con la quale egli si fidanza? Il commediografo Georg Ròmer, che lo frequentò a lungo durante gli anni di Francoforte, riferisce che Schopenhauer «sapeva raccontare anche in maniera commovente, soprattutto quando parlava di una sua relazione amorosa a Roma o a Firenze, relazione che ricordava spesso con grande malinconia, assicurando che allora egli, in parte per inclinazione, in parte per sentimento del dovere, si sarebbe sposato, se non fosse intervenuto un ostacolo insormontabile che, nonostante tutto il dolore che gli aveva procurato, egli ora doveva considerare una fortuna, dato che una moglie non si confà ad un filosofo». Un altro amico del filosofo, invece, riferisce che la fidanzata era una nobile fiorentina. Ma poi Schopenhauer ruppe il fidanzamento, perché aveva saputo che era malata di tisi, «lungenkrank». In una pagina di taccuino, scritta proprio a Firenze troviamo, fra gli altri, i nomi di una «marchesina Bartolomei» e di una «signorina Inghirami». Che non sia stata una di loro a far perdere la testa a Schopenhauer? Il suo amore per l'Italia e per le italiane, però, non impedì al filosofo di dare giudizi micidiali sul nostro popolo. Lettera da Firenze del 29 ottobre 1822: «Eccomi di nuovo fra questa gente malfamata, che ha volti così belli e animi così cattivi... Essi sono fini e astuti e, quando vogliono, sanno perfino sembrare onesti e leali; e nondimeno sono così perfidi, disonesti e impudenti, che la meraviglia ci fa dimenticare lo sdegno. Le loro voci sono orribili: se a Berlino uno solo urlasse per la strada in maniera così rimbombante come fanno qui a migliaia, accorrerebbe tutta la città. Ma a teatro trillano a meraviglia». E ancora: «Il tratto principale, nel carattere nazionale degli italiani, è un'impudenza assoluta. Questa dipende dal fatto che essi da un lato non si sentono inferiori a nulla, sono quindi presuntuosi e sfacciati, dall'altro non si ritengono buoni a nulla e sono quindi vili. Chi, viceversa, ha pudore è per certe cose troppo timido, per altre troppo fiero. L'italiano non è né l'una né l'altra cosa, ma, a seconda delle circostanze, è tutt'al più pusillanime e borioso». Sono parole che bruciano, anche perché dette da un filosofo assolutamente privo di pregiudizi e di pruriti nazionalistici. Potremmo consolarci sapendo che egli, in fondo al suo cuore, continuò ad amare l'Italia fino alla fine dei suoi giorni e che disse cose ancora peggiori sugli altri popoli. Ecco, per esempio, il giudizio sui francesi: «Le altre parti del mondo hanno le scimmie, l'Europa ha i francesi. Siamo quindi pari». Quanto ai tedeschi, nessuno ne disse tanto male, neppure Lichtenberg, neppure Nietzsche. Schopenhauer arrivò al punto di scrivere che, in previsione della sua morte, ci teneva a fare questa dichiarazione: «Disprezzo la nazione tedesca per la sua infinita stupidità e mi vergogno di appartenervi». E ora ecco un altro giudizio sull'Italia: «Con l'Italia si vive come con un'amante, oggi in grande collera e domani in adorazione; con la Germania come con una moglie, senza grande collera e senza grande amore. Si potrebbe solo aggiungere che mentre la Germania ha continuato e continua a prendersi cura dei suoi figli, l'Italia, a furia di zompare da un letto all'altro, s'è fatta di amante puttana». Quanto a lui, Schopenhauer, è da presumere che con l'Italia ci abbia vissuto soprattutto come amante. Lo si deduce dal suo grande interesse per il patrimonio artistico e culturale della Penisola. Sarebbe difficile trovare un tedesco che conoscesse così bene la nostra cultura, a cominciare da quella latina. Per giunta Schopenhauer, oltre a padroneggiare la lingua italiana, sapeva districarsi anche nei dialetti, come in quello veneto e in quello lombardo. E non parliamo della musica. Per lui, autore di pagine fondamentali sull'estetica musi: cale, il musicista per eccellenza è Rossini: «Ammiro e amo Mozart, e vado a tutti i concerti in cui si suonano le sinfonie di Beethoven; ma, se si è ascoltato molto Rossini, tutto il resto riesce pesante». Ma Schopenhauer ha scritto anche la Metafisica dell'amore sessuale, che è sicuramente la cosa più profonda che si sia mai detta sul mistero dell'amore. Solo chi avesse fatto lunga esperienza di tale passione poteva scrivere un capolavoro del genere. Quanta parte vi ebbero le donne italiane amate dal filosofo? Certo è che l'Italia, forse anche a causa dell'amore o degli amori che vi aveva vissuti, rimase sempre nella mente e nel cuore di Schopenhauer. Gwinner racconta che, poco prima di morire, egli chiese «le ultime novità in politica e in letteratura, ed espresse la speranza che l'Italia potesse avere l'unità. Aggiunse però, che in tal caso avremmo dovuto scambiare la vecchia Italia riccamente individualizzata, alle cui molteplici divisioni in fatto di carattere, di spirito e di costumi era legata, forse inconsapevolmente, gran parte dell'Europa colta, con un'Italia modernamente confusa e livellata». Anacleto Verrecchia Si fidanzò con una ricca fiorentina che lasciò perché malata di tisi Ma non risparmiò duri giudizi «Questa è gente malfamata con volti così belli e con animi così cattivi» RACCONTI D'ESTATE viaggiatori in Italia. Quando a Ven