Brontolii e mugugni di Dalmazia

BronlolK e mugugni di Dalmazia BronlolK e mugugni di Dalmazia Viaggio nella «Croazia del Sud», insolente e ribelle Q SPALATO UANTE Spalato, quante Dalmazio giustapposte, ho già conosciuto nel corso degli anni? Quante ne hanno viste i miei bisnonni prima di diventare cittadini austriaci, o i miei trisavoli passando dall'Ungheria a Venezia fino alla napoleonica «provincia illirica» governata dal duca di Ragusa Marmont? Un continuo, traumatico travaso politico, culturale, linguistico e spesso militare da un esilio interiore all'altro. Prendiamo il periodo, attraversato dalla mia generazione, che doveva distinguersi per la turbolenza dei suoi vorticosi mutamenti. Prima di ritrovare in Dalmazia questo rinnovato Stato croato, avevo visto avvicendarsi fra le mura spalatine la Jugoslavia monarchica, l'Italia fascista, la Croazia ustascia, la seconda Jugoslavia titoista e infine la grande fratricida, la Jugoslavia postcomunista, spinta al suicidio dal morbo nazionalistico. A parte l'oasi fortunata e astuta della Repubblica marinara di Ragusa, sopravvissuta per oltre cinque secoli fra turchi e veneziani con una sua straordinaria fioritura commerciale e culturale bilingue, la storia sempre cangiante ha profuso nel resto della Dalmazia ogni sorta di riti e di alfabeti, di stendardi e di baionette, di editti e di leggi marziali, di transizioni e transazioni fra guerre continue, pestilenze, orrori, distruzioni. Una Babele in moto e disfacimento perpetuo. Basterà ricordare che il re d'Ungheria vendette per un pugno di danari, come merce vile, la costa dalmata alla ricca e dura Venezia, che si coprirà più di sangue che di gloria nei reiterati e spietati assedi navali contro Zara ribelle, celebrati trionfalmente dal pennello imperialistico del Tintoretto. Probabilmente qui, in queste metamorfosi perennemente convulse della storia balcanica, che per i dalmati si riduceva a una nevrotica altalena di esili successivi in casa propria, mette radici il noto cinismo iconoclastico e maldicente degli spalatini. La dissacrazione, l'irrisione, il sarcasmo, quali strumenti di resistenza ai traumi di una terra sempre alienata per mano straniera da se stessa, sono stati e sono tuttora la loro più congeniale arma di battaglia e di comunicazione col mondo. Lo scorbutico Tommaseo fu a suo modo l'antesignano ottocentesco di questo singolare istinto dissacratore e negatore. Nato a Sebenico, non lontano da Spalato, nomade per vocazione esistenziale più che politica, rirritabilissimo promotore della risorgimentale quanto effimera Repubblica di Venezia partecipò da par suo, con insolente originalità, a un sistematico dileggio di tutto ciò che lo circondava. Non risparmiò le figure più sacre, i miti più intoccabili del suo tempo. Irrequieto, contraddittorio, sempre lacerato tra fede e bellezza, non solo ripercorse le stesse orme mistiche e lussuriose dell'illirico San Gerolamo («parce mini, Domine, quia dalmatus sum!»); ma si abbandonò alla voluttà intemperante dell'insulto contro il molle Manin definito «pantegana di laguna», contro l'ambiguo Manzoni nel cui romanzo vedeva «un miscuglio di giovedì grasso e di venerdì santo», infine, toccando i vertici della profanazione, contro la «musa gobba» di Leopardi che gli riusciva lamentoso e insopportabile. La sua furia iconoclasta si abbatté anche su Rosmini, Gioberti, Cattaneo, Vieusseux. Del resto, i ponderosi dizionari compilati dal grande filologo, il quale, mentre spaccava in quattro ogni capello della lingua italiana, scriveva alla madre lunghe lettere in serbocroato, continuano a schizzare fra sinonimi e lemmi manciate di vetriolo, di caustici paradossi, di stroncature non solo lessicali. A tale gusto innato per la sferza s'univa, soprattutto nei dalmati d'altri tempi, il culto della stramberia. Gli spalatini usavano dedicare una cura e un'attenzione molto particolari, miste di crudeltà e di affetto, ai cosiddetti «ridicoli» cittadini che spesso erano veri e propri mostriciattoli: gobbi, storpi, gnomi, macrocefali deformi, matti placidi o furbeschi, fattucchiere stralunate e talora scostumate. A ciascuno di questi poveri vagabondi l'umor comico popolare, fra goldoniano e gogoliano, affibbiava nomignoli grotteschi allusivi, onomatopeici, derivati dal rumore che producevano o dalla deformità che esibivano, come Sciora Vize Tikitak, Giovanina Cocola, Toma Bacir, Stipe Igra. I relitti pittoreschi e cenciosi di questa corte dei miracoli, sciamante per le calli e per la riva soprattutto nei giorni di festa e del carnevale, incalzata dai lazzi di monelli urlanti e feroci, erano al tempo stesso amati dai signori e apprezzati dagli intellettuali, che vedevano in essi l'incarnazione caricaturale dello spirito saturnino e sulfureo della città. Venivano considerati alla stregua di folletti emblematici, destinati al sacrificio comico nelle gogoliane e profane rappresentazioni di piazza, intoccabili anche se dileggiati e fustigati; i poliziotti non potevano più che tanto perseguitarli, mentre l'amministrazione comunale, foraggiata dalle cospicue elemosine dei contribuenti più facoltosi, doveva proteggerli e spesso nutrirli. E' su tale più antico sfondo d'irriverenza pubblica che ancora oggi sibilano e schioccano le frustate degli scrittori spalatini, dei giornalisti e dei disegnatori umoristici, i quali hanno alle spalle una lunga assuefazione alle guerriglie civili contro l'autorità. Già i loro predecessori, fin dai tempi tolleranti dell'Austria e da quelli più arcigni della Jugoslavia monarchica, non avevano rispettato niente e nessuno, né gli Absburgo né i Karadjordjevic: perfino i piccantissimi libretti d'operetta del popolare compositore spalatino Tijardovic venivano concepiti da lui stesso, insieme con la musica, per secondare e stimolare l'inclinazione del pubblico locale all'ir- risione e alla beffa. Da alcuni anni gli eredi di questa mordace intelligencija municipale, nonostante la guerra con i serbi, danno molto filo da torcere ai nuovi poteri e governanti di Zagabria. Anzi Spalato, nella giovane e incompiuta Croazia d'oggi, dove le pulsioni autoritarie si mescolano alla protesta democratica, è diventata in breve tempo l'antitesi di Zagabria. Qui non è all'ordine del giorno la reverenza per l'autorità. Lo è invece la critica anticonformistica, la contestazione, sovente la negazione feroce di tutto ciò che fanno e disfanno a Zagabria. Non solo gli articoli sui giornali locali, ma perfino i graffiti sui muri locali hanno dato voce a un'opinione alquanto diffusa in tutta la Dalmazia costiera: «Zagabria = Croazia. E noi?». I dalmati in altre parole vogliono essere e restare dalmati, non amano sentirsi definire «croati del Sud» dai burocrati zagabresi, che spesso, dato il clima bellico, li accusano di disfattismo e di separatismo antipatriottico. Ma i censori di Stato come sempre esagerano. La verità è che la Dalmazia, abituata fin dalla dualistica epoca absburgica ad essere amministrata direttamente e morbidamente da Vienna, non prepotentemente da Budapest come la Croazia, è ri| masta ancorata a una sua identità ; culturale autonoma, diversa da I quella dei croati di Zagabria o di Erzegovina. L'etnia croata, che gli occidentali mettono tutta in un sacco, è culturalmente assai più diversificata al proprio interno di quella serba. Per esempio il tedesco era la seconda lingua degli zagabresi (vedi il vulcanico scrittore Krleza), mentre l'italiano poteva essere la prima lingua dei dalmati (vedi l'eruditissimo Tommaseo e l'astronomo Boscovich). L'anelito a una maggiore autonomia regionale, non alla separazione dallo Stato croato, che essi vorrebbero più liberale e più democratico, è quindi qualcosa di comprensibile e di storicamente giustificato nei dalmati: è qui il fermento di fondo ci i3 oggi anima in particolare gli spalatini, nella loro quotidiana e dura remica contro il centralismo z >brese. Una polemica che però, secondo la radicata tradizione locale, straripa a tratti nell'insolenza allo stato puro: un'insolenza collerica, direi tommaseiana, che, partendo dal capoluogo dalmata, percorre come un brivido scandaloso l'intera nazione croata. E' a Spalato infatti, dove fra le due guerre vide già la luce e la censura il foglio umoristico «Standarac», che ora risorge dall'arsenico il suo erede storico: il terribile «Feral Tribune» («Feral», che nel calembour sta per «Herald», è il termine che in dialetto spalatino, ricco di venezianismi, definisce i caratteristici fanali portuali della città). Questo settimanale dissacrante si è spinto al limite dell'oltraggio, pubblicando, una settimana fa, il fotomontaggio di un presidente Tudjman in costume adamitico. L'allusione al «re nudo», spogliato dei suoi poteri arbitrali da certi ministri ultranazionalisti, era spietata oltreché evidente e, diciamolo pure, eccessiva. Non c'è da stupire che il «Feral», trainato dal suo propellente di veleno e d'audacia, vada a ruba non solo per l'intera Croazia, ma sia l'unica pubblicazione croata che i serbi possono acquistare liberamente nelle edicole di Belgrado. Per ora ho solo accennato al campionario delle infinite ostilità che oppongono gli insolenti di Spalato ai custodi zagabresi dell'integrità patriottica e dell'eroismo bellico. Si tratta di un nodo storico, le cui radici, smosse dalla guerra, riemergono dal passato in un presente carico di risentimenti, di contrasti, di delusioni, di conti che non tornano. La Croazia s'è fatta. Ma la convivenza fra i croati, così dissimili dal Nord al Sud, dall'Ovest e dall'Est, è ancora tutta da fare. Enzo Bettiza I Qui ho visto avvicendarsi la Jugoslavia monarchica l'Italia del fascismo la Croazia ustascia e lo Stato titoista Poi la grande guerra fratricida, il suicidio da morbo nazionalistico E' una Babele in moto e disfacimento perpetuo I graffiti sui muri domandano «Zagabria uguale Croazia E noi?» Un terribile giornale satirico di Spalato va a ruba E' il «Feral Tribune» Soldati italiani durante l'occupazione Sopra l'imperatore Francesco Giuseppe In basso, un'immagine di Spalato