TONINO GUERRA ritorno al bosco incantato

TONINO GUERRA quella volta con papa'. Nel'45, sul treno dalla Germania: il poeta amico di Fellini racconta TONINO GUERRA ritorno al bosco incantato PENNABILLI (Pesaro) DAL NOSTRO INVIATO Tonino Guerra ha appena inaugurato il «Bosco incantato», quattordici piccole colonne che reggono una pigna e una ghianda con la scritta: «Se attraversi questo bosco, perdi la memoria e ritroverai il giorno più bello della tua vita». Sogna di dipingere la valle del Marecchia con fiori di diverso colore. Nel suo studio, un ex pollaio in una casa circondata da un muro di pietre colte in pievi abbandonate, è ancora pieno di stupore per la visita del Dalai Lama. Il Lama è venuto perché da qui partì per il Tibet nel '700 il cappuccino Francesco Orazio Olivieri Della Penna, autore del dizionario tibetano-italiano, e i cappuccini sono un ordine fondato nel '500 da Fra Matteo, che era di Bascio, frazione di Pennabilli. Il Lama ha camminato su tappeti di petali di fiori, ha toccato un gelso nell'Orto dei frutti dimenticati, e nella piazza ha udito la campana che Frate Orazio fece costruire a Lhasa: i pennesi hanno registrato a Lhasa il suono di quella campana. Lo scrittore Tonino Guerra, 74 anni, vincitore dell'ultimo Premio Pirandello con A Pechino fa la neve, vive a Pennabilli perché il mestiere di suo padre era quello di venire qui, a 40 chilometri da Santarcangelo, il paese natale, con il cavallo e il carro per vendere frutta e tornare con fascine e carbone: «Da Santarcangelo sembrava che andasse sull'Himalaya perché ci faceva sempre la neve - racconta Guerra -. "Tornerà? Ce la farà?" ci domandavamo. Pennabilli era come Lhasa, è rimasto dentro di me. Da bambino mio padre mi portava con sé per vendere i cocomeri: "Mi dai una mano - diceva - e respiri l'aria dei 700 metri, che fa bene contro la tubercolosi". Era tale la paura che m'han fatto della tbc che una volta a 14 anni al mare sono stato a bocca aperta un'intera mattina sotto il sole: m'hanno portato all'ospedale. M'infilavo il sole in bocca per mandarlo giù più in fretta». Suo padre non era mai malato: «Quando è morto, a 86 anni, era rosso di colore. Gli dissi: "Babbo, sapete che voi potete arrivare a 100 anni?". "Perché, dopo non ce n'è più?" mi rispose». Né baci né carezze Amava gli animali: «Andava in piazza alle 5 della mattina e comprava o si faceva dare, o rubava, un po' di pesce e chiamava i gatti: "Piccini! Piccini!". Li faceva saltare: "Ham! Tu no, l'hai già avuto". Un rito suo. Io lo sentivo dalla finestra. Oppure guardava un galletto e gli diceva: "Chicchirichì!". E quello rispondeva: "Chicchirichì". Dava ordini a tutti. Quando arrivava a tavola domandava: "Sono entrati?". Non si mangiava se non c'erano il gatto Barulòn e i cani. Mangiava in silenzio e quello che voleva lo indicava con le mani. Noi lo servivamo». Il suo divertimento era di andare in «cantina», come allora si chiamava l'osteria: «Un bicchiere di vino e un po' di lupini la domenica. Ha giocato a bocce una volta sola». Era un uomo «che non dava baci né carezze né ti toccava. Le mani le usava per tirar su i gatti o carezzare i cani. Ma dentro il suo distacco c'era un grande tremore». Indimenticabile, per esempio, il loro incontro nell'estate del '45, quando Guerra torna dalla Germania dopo un lunghissimo viaggio: «Ci vollero due mesi solo per formare un treno. La guerra era finita in primavera e noi prigionieri partimmo da Troisdorf, vicino a Colonia. Arrivai a casa in agosto». Il poeta e sceneggiatore Tonino Guerra racconta. Su quel treno, in due angoli del suo vagone merci, c'erano un borghese, uno che era andato a lavorare volontario in Germania, e una prostituta fiorentina: «Valorosissime, le prostitute - dice Guerra -. Facevano l'amore coi tedeschi di guardia alla fabbrica di dinamite e le sentivamo mentre facevano l'amore appoggiate alla nostra baracca. I pani e il burro li posavano sulle brande degli italiani che stavano male. Bisogna fare un inno. Una mattina vedo una mano bianca che mette tre mele sopra di me: era verso le 5, ai primi chiarori». Dalla parte opposta c'erano lui e un sacerdote, don Remigio. Al centro del vagone, dov'erano ammassati i bagagli dei soldati che dormivano sul tetto, s'erano sistemati una polacca in pelliccia bianca e un certo Salvatore, che la portava sposa in Italia: «Al buio - ricorda Guerra - sentivo il prete che diceva a Salvatore: "Hai pensato bene? Porti a casa una donna!"». Gli americani avevano distribuito alcune scatole di biscotti. L'uomo in borghese, odiato dai soldati sul tetto, chiede qualche biscotto: «Io e don Remigio glieli diamo. Poi sentiamo un cattivo odore: il borghese copriva i suoi bisogni coi biscotti per mascherare il cattivo odore. "Vai via! Vai via!" gli gridano i soldati. Lui si mette in piedi nel gabbiotto dei frenatori col suo fardellino. Non poteva neanche scendere alle fermate perché nessuno lo avrebbe avvertito quando il treno ripartiva. A ogni fermata andavamo a vedere se era ancora nel suo gabbiotto, e una volta non c'era più. Scendeva anche la polacca in pelliccia bianca per fare pipì e qualcuno di guardia la avvertiva: "Il treno parte!". La fiorentina s'era offerta di avvisarla, ma la polacca non l'aveva voluta». Il treno attraversa la Svizze¬ ra e si ferma vicino a un lago: «C'è della gente bella che fa il bagno. Cambiamo treno e vediamo Salvatore che guarda là polacca con occhi diversi». A Chiasso credono di essere accolti chissà come e invece è domenica, c'è la partita di calcio, le persone vanno di fretta. Un camion li porta nel chiostro di un convento abbandonato. «Bentornati», dice un altoparlante. Passano davanti a tre sportelli sotto un porticato, dove danno cinque sigarette Ambrosiana a testa, due pere e due pezzi di sapone. L'altoparlante saluta: «Auguri e arrivederci». C'è un sole pazzo. Guerra ripara sotto la tenda di un negozio di alimentari. Un urlo dal chiostro: «Salvatore!». Compare la polacca: chiede dov'è Salvatore, «lo allargo le braccia come per dire: "Non l'ho visto". La fiorentina la prende sottobraccio e vanno a cercare insieme. Salvatore era scomparso. Anche loro scompaiono». Non ci sono ponti, sul Po. Guerra arriva comunque a Bologna e sale su un treno merci che va verso Santarcangelo. Arriva di mattina presto: «E' domenica 4 agosto, sono solo, c'è il sole, gli ippocastani del viale lungo un chilometro sono stati tagliati e il paese s'è come avvicinato. Il viale lo facevo a piedi quando andavo a scuola da bambino e cadevano le castagne che mi facevano paura». Fa i primi passi. Vede un contadino: «Buongiorno!» gli dice. «Buongiorno - dice il contadino -. Lei non è di qui?». «No - risponde Guerra -. Ci sono stati bombardamenti?». «Qualcosa». «Molti morti?», domanda Guerra. «No, non molti». «Conoscevo delle persone in via Verdi...». «Quelli che facevano il carbone? - domanda il contadino -. Stanno bene». Guerra è rincuorato. Ma come giungere a casa? I suoi erano anziani, tutti l'avran dato per morto, e un'improvvisata... Passano le ore. Fa caldo. Si siede lungo il fosso all'ombra. Passa in bicicletta uno che conosce: «Vai a chiamare mio cognato», gli chiede Guerra. «Ma no! - ribatte quello -. C'è la partita e lui vende le gazzose». Dopo un quarto d'ora arriva il cognato in bicicletta. «Tu vai dai miei - gli raccomanda Guerra - e gli dici che ci sono novità. Di' che a Milano e a Bologna è arrivato un sacco di prigionieri». Il cognato va e torna, e va per altre quattro volte: prima dice che fra i prigionieri ci sono dei romagnoli, poi che c'è un riminese, poi che il riminese si chiama forse Guerrini, infine che il riminese si chiama Guerra, è di Santarcangelo, sicuramente è Tonino, loro stessero pure a casa. «Un anno bello, divertente» Sono le due del pomeriggio. E' arrivata un po' di gente. Guerra fa gli ultimi passi nel viale. Là in fondo, a dieci metri, ecco via Verdi: «Alla curva c'è mia madre, che mi si aggrappa al collo. "Per carità, non facciamo drammi - le dico -. Stavo benissimo. E' stato un grande anno, bello, divertente". Lei scuote la testa: "Sempre pazzo, mio figlio!". «Mio padre è sulla porta di casa. Io lo vedo. Ci sono dieci metri da fare. Al sesto metro mi fermo con tutta la gente. Ha il sigaro in bocca. Mi fa una sola domanda: "Hai mangiato?". "Certamente, cazzo. Da buttar via". Lui si avvia, mi passa accanto. Ha il cappello in testa. Ci guardiamo. "Dove andate?" gli domando. Si gira quasi irritato: "Ho da fare". Ma la strada da quella parte era chiusa. Ho visto che era in imbarazzo. Andava contro un muro. «Entro nella saletta di casa. Modesta: c'era un mobile, c'era un divano con le molle di ferro che sembrava una barchetta, c'erano due bombe dell'altra guerra che facevano da portafiori. Un cesto appeso al collo «Entra uno con una valigetta di cartone in mano, che non conosco. "Cerca qualcuno?" gli chiedo. "Cerco lei - risponde -. Sono un barbiere". Mi tocco il viso, capisco che ho la barba. "Me l'ha detto suo padre", dice. E davanti a tutti, col suo asciugamano, mi fa la barba. «Il bianco del sapone mi fa ricordare i confetti delle nozze di mia sorella. Avevo dieci anni. Sono nel giardino, un giardinaccio con la legna e le baracche dove c'era il carbone, e mi infilo in una baracca dove c'è una bilancia. C'è lui, mio padre, che piange. Una cosa unica nella vita. Comincia a gridare: "Basta! In questa casa non si può stare tranquilli in nessun posto!". E scappa correndo per le baracche nere d'ombra e carbone»... Ogni tanto Tonino Guerra incontra ancora suo padre. A gennaio è andato a Mosca (sua moglie, Lora, è russa), dove gli piace frequentare i mercati: «Ce ne sono alcuni pieni di dignità e di fango. All'esterno, vecchi insegnanti distinti vendono una baguette di pane o pacchetti di sigarette. Si cammina sul ghiaccio, un po' scivolanti. Io guardo questi personaggi. «Improvvisamente mi trovo davanti un uomo alto con un cesto appeso al collo sul davanti, le mani nel cappotto nero. Io sono nel fango che mi muovo. La visione mi dà un palpito. Ho pensato a mio padre col cappello, quel giorno del mio rientro dalla Germania. Ci siamo guardati negli occhi. Ho capito la speranza di quest'uomo per il mio interesse. Lo guardo. Non so che cosa fare. Mi viene un gesto spontaneo: ci diamo la mano. E' stata la più lunga e commossa stretta di mano della mia vita». Claudio Altarocca A Santarcangelo di Romagna per vincere la commozione si cercò il barbiere «Ho una visione: mio padre silenzioso, imbarazzato. Bastò una sguardo, una stretta di mano» Sul treno da Colonia, fra gags surreali, viaggiano un prete, una prostituta e un tizio che si porta a casa una polacca Il ritorno dei reduci dai campi di prigionia. A destra, il poeta e sceneggiatore Tonino Guerra. Sotto, la piazza di Santarcangelo, il centro del suo mondo «creativo» e dei ricordi famigliari