Mistero inglese a Venezia di Fabio Galvano

Mistero inglese a Venezia Incontro con Michael Dibdin: perché i suoi best seller sono tutti ambientati nel nostro Paese Mistero inglese a Venezia «Racconto l'Italia, con igialli» LONDRA DAL NOSTRO CORRISPONDENTE Aurelio Zen torna a casa; torna a Venezia. Già protagonista di tre romanzi di Michael Dibdin, tutti ambientati in Italia, questo poliziotto veneziano trapiantato a Roma sta diventando personaggio di fama internazionale. Un progetto di trasposizione televisiva (ne stanno discutendo Bbc e Rai) potrebbe sancirne il trionfo; e per Dibdin, 47 anni e con i capelli già bianchi, fumatore accanito, già tradotto in 15 lingue e per l'Italia da Mondadori, la quarta avventura del suo eroe (Dead Lagoon, che è poi la veneziana Laguna Morta) sembra coronare l'aspirazione a una fama di scrittore inglese che ambienta i suoi gialli in Italia, in questo caso riversandovi addirittura i più recenti scossoni politici, ma soprattutto di giallista che ambisce a fare letteratura. Perché l'Italia? «Sono vissuto cinque anni a Perugia, prima insegnante d'inglese, poi assistente all'università. E andandomene nel 1984 m'è venuta voglia di sfruttare in un libro quella mia esperienza. Era inevitabile: l'Italia è un teatro vivente, con gli stessi drammi degli altri Paesi europei ma recitati all'aperto». E perché Zen? «Perché è fatalistico come me. E' uno che non crede di poter cambiare il mondo, forse non è neppure convinto di poter risolvere il caso di cui si sta occupando, in fondo non sa neppure se i suoi superiori vogliono veramente che lui risolva quel caso. E' il personaggio ideale per una situazione molto complicata, molto italiana». In Inghilterra ha successo? «Direi di sì, perché in fondo le stesse situazioni si verificano anche da noi, quello che cambia è soltanto il modo di percepirle. Qui, quando c'è uno scandalo di polizia, si dice che è un'eccezione a conferma della regola di una polizia meravigliosa. In Italia la reazione è diversa: c'era da aspettarselo, dice la gente. Ma le realtà sono le stesse; e il successo di Aurelio Zen anche in Inghilterra ne è la prova». Quattro storie «italiane» che l'hanno collocata fra gli autori di punta della Faber and Faber, terzo dopo Ruth Rondell e P.D. Jones nella classifica dei giallisti inglesi. «Non posso lamentarmi. Ma Zen non è la mia sola creatura. Certo, dopo il successo del primo romanzo, Nido di topi che era ambientato a Perugia, mi sono accorto di avere in mano un filone valido. Il secondo romanzo con Aurelio Zen protagonista, Vendetta, era ambientato in Sardegna. E il terzo, Cabal, nella Città del Vaticano. Quest'ultimo a Venezia. Una delle grandi gioie dell'Italia è la sua diversità da regione a regione; e mi piace farle conoscere ai miei lettori, attraverso i miei libri. Ma ho anche deciso che Zen non deve avere un'esclusiva, per cui alterno le sue avventure ad altri romanzi». Zen non s'ingelosisce? «Prima di lui avevo già scritto un giallo ambientato nella Firenze del 1855, con il poeta Robert Browning in veste di Sherlock Holmes, ogni assassinio basato su uno dei castighi dell'Inferno dantesco. E prima ancora avevo scritto L'ultima storia di Sherlock Holmes, che ora sarà pubblicato da Bompiani». Perché un veneziano come filo conduttore della sua scoperta d'Italia in chiave gialla? «Perché Zen è, in fondo, uno straniero come me. Non può conoscere certi luoghi come non posso conoscerli io». Allora perché nell'ultimo romanzo lo fa tornare a Venezia? «Perché volevo scrivere un romanzo sul ritorno a casa, che significa in realtà scoprire che dopo ventanni tutto è cambiato. E poi perché Venezia si prestava, forse meglio di ogni altra città italiana, a illustrare talune nuove realtà politiche. Zen ritrova un'amica di gioventù, che viveva dall'altra parte del campo, ma che ora è sposata a una specie di Bossi, ma più estremista di Bossi. Lui si chiama Dal Maschio, guida un partito che si chiama Nuova Repubblica Veneta e vuole procla¬ mare l'indipendenza di Venezia, farne una città libera con vantaggi fiscali e visti da 50 dollari per i turisti. E' una parodia delle leghe, ma non di Bossi che non conosco abbastanza; anche se Dal Maschio, come Bossi, è uno con idee in apparenza rozze ma con molto carisma, uno che sa parlare alla gente e che appare - dopo gli Andreotti e i Craxi - come una persona vera che sa dire cose vere». Nel libro c'è anche Berlusconi? «No, non potevo indovinare la sua nascita politica e il suo successo. Immaginavo una lotta fra il vecchio regime, le leghe e la sinistra. Ma Berlusconi sarà nella prossima avventura di Aurelio Zen, che si svolgerà in Sicilia; quindi alle prese con la mafia, anche se non sarà un libro sulla mafia perché non voglio scrivere un altro Padrino. L'importante è far conoscere un'Italia non turistica, evitare di cadere nella trappola in cui sono caduti molti scrittori inglesi e americani che si sono lasciati conquistare dal superficiale, dalle bellezze naturali, dal fascino degli italiani e hanno trasformato l'Italia in una terra di fantasia irreale. So che l'Italia non è quella: certo, ha il suo fascino, ma per la maggior parte degli italiani la vita è dura, difficile, reale. Cerco di dire, insomma, che c'è un'Italia vera, con il fascino di quella della fantasia ma anche con quello della realtà. Non un Paese di vacanze, come lo vedono molti stranieri, e quindi in questo mio ultimo romanzo non una Venezia in stile Eurodisney; ma un Paese che mostra in modo più drammatico ed esplicito ciò che può accadere anche altrove. Per questo Aurelio Zen non è una caricatura, non dice "ciao" e "cappuccino" ogni tre righe. Voglio scrivere cose serie sull'Italia». Cerca di andare oltre il giallo? «Assolutamente sì. Può sembrare pretenzioso, ma in fondo è quello che Leonardo Sciascia ha fatto in alcuni dei suoi libri. Si può sfruttare la struttura del romanzo poliziesco per dire cose interessanti. Non m'interessa il tradizionale giallo inglese alla Agatha Christie, con l'enigma, il trucco intelligente, il meccanismo a effetto. Sovente oggi il romanzo letterario è molto soggettivo, costruito attorno a qualcuno che vive in una stanza e non riesce ad alzarsi o aprire la porta, vittima della nostra alienazione post-modernistica. Ma il risultato finale è un libro non molto interessante da leggere. Il romanzo poliziesco, invece, offre le stesse possibilità di un romanzo del XIX secolo: penso a Dickens, Trollope, Balzac, i cui romanzi sovente coinvolgevano un elemento criminale, un morto, uno scomparso, usati per indagare su quella società. Non pretendo di essere a quei livelli, ma quello è il mio approccio». E Aurelio Zen è il suo Virgilio. «Sì, mi aiuta a riconoscermi, fatalista come sono. Io sono uno che ha cominciato tardi, il primo romanzo l'ho scritto a 28 anni, prima ero andato in America a fare lo hippie, sesso droga e rock. Uno che si divertiva, ma irresponsabile: come irresponsabili erano stati anche i miei genitori, che avevano l'istinto degli zingari e ogni anno cambiavano città fino a quando, a sei anni, mi sono impuntato e ci siamo allora stabiliti in Irlanda, alle porte di Belfast. Io continuo a essere zingaro, e Zen anche: ora vado in America, a Seattle, dove ho qualcuno; e comunque devo documentarmi sul mio prossimo libro che, in nome dell'alternanza, non riguarda Zen. E' un giallo ambientato nel mondo delle sette religiose». Zen l'aiuterà a riconoscersi, ma lei si riconosce in lui? «In parte sono io, in parte è un mio amico italiano, Paolo Bartoli che è antropologo all'Università di Perugia, in parte è inventato. Io non volevo un poliziotto in stile americano, con la pistola in mano, che spara e arresta. E' quasi un burocrate, uno che deve fare un certo lavoro e pensa alla pensione. E' una persona sostanzialmente morale, il più delle volte cerca di fare quello che è giusto. Ma non è né martire né santo: se riesce a guadagnare qualche soldo a margine non si tira indietro. Nella storia veneziana una sua vecchia amante, Ellen, gli chiede d'indagare sulla scomparsa di un americano residente a Venezia, che la polizia non riesce a capire. E lui accetta: non perché creda di risolvere il caso, ma perché gli fanno comodo i soldi di quelle due o tre settimane per sistemarsi a Roma con la sua ragazza, Tania. Ma trattandosi di Aurelio Zen, il più delle volte fallisce anche in queste cose». E' quello che lo rende simpatico? «Anche; ma è soprattutto, per me, il simbolo della diversità culturale che mi affascina. Non sono uno di quegli inglesi che vivono, respirano e pensano nient'altro che Inghilterra. I miei amici italiani mi sono molto più vicino di quanto possano essere la maggior parte degli inglesi che conosco. Aurelio Zen è il mio interlocutore più diretto». Fabio Galvano E'Aurelio Zen, commissario veneto, il protagonista fisso che questa volta indaga in Laguna A sinistra, una immagine di Venezia. Qui sopra, il romanziere inglese Michael Dibdin