CANETTI

CANETTI CANETTI Ulisse tra k rovine del secolo E]LIAS Canetti veniva da lontano, da una provincia marginale del grande Impero Absburgico. Era na Jto nel luglio del 1905 a Rustschuk, una cittadina dell'odierna Bulgaria, sul basso Danubio. Ma quel mondo, quella realtà erano ormai immersi in una luce mitica, sfiorati dal respiro quasi irreale e favolistico di tanti autori della Mitteleuropa, da Roth a Singer. Figlio di ebrei sefarditi, di tradizione e lingua spagnole, Canetti amava definirsi un sopravvissuto, inchiodato al presente per rubare al tempo i tesori della propria memoria. «Dentro di lui - si legge in un aforisma della splendida raccolta 12 cuore segreto dell'orologio (Adelphi, 1987) - vennero in visita tutte le persone dimenticate e si presero le loro facce». L'esistenza nell'oggi era come una maschera con cui rintracciare il passato, un invito a ricalcare tracce disperse tra le rovine del secolo. Canetti era affascinato dalla molteplicità delle cose, dai messaggi visivi e acustici della realtà. In qualche modo Rustschuk continuò a vivere e maturare dentro di lui, incessantemente. In quel crocevia di genti, lingue e tradizioni convivevano turchi, spagnoli, greci, armeni, albanesi. Non mancavano gli zingari e spesso, dalla sponda opposta del Danubio, arrivavano i romeni. Ogni giorno si udivano gli idiomi più diversi in quell'angolo d'Impero a cui Canetti ha dedicato pagine indimenticabili nel suo primo volume autobiografico, La lingua salvata (Adelphi, 1980). Nel cuore di quell'infanzia così variamente modulata talune vaghe sensazioni si sono rapprese fino a diventare più tardi temi centrali della sua opera: dall'ossessione della morte all'interesse verso la massa (fondamentale in proposito il suo imponente saggio sociologico Massa e potere, pubblicato nel 1960), al gusto per la varietà delle lingue, specchio dei molti linguaggi umani e di inesauribili stimoli acustici che percorrono la sua scrittura. Il mondo dev'essergli apparso come una fantasmagoria inesauribile, uno schermo su cui leggeri scivolavano infiniti destini, che occhi e orecchi erano pronti a captare come una riserva per la vita. In quel turbine finì pure lui, sbalzato dalla magica provincia nelle grandi metropoli europee. Prima in Inghilterra, nel 1911, dove il padre, che sta per intraprendere una nuova attività commerciale, muore d'infarto, poi a Vienna, Zurigo, Francoforte. Sono anni di difficile apprendistato umano, linguistico e culturale Flia<? si misura con l'inglese. impara il tedesco «lingua madre appresa con ritardo e veramente nata con dolore», e si muove, come il suo amato Ulisse, attraverso le molte metamorfosi della sua esistenza europea. E' attratto dalla grande letteratura, ma a Vienna, dove ritorna nel 1924, si laurea in chimica. Ha raggiunto una sicurezza psicologica più che professionale: d'ora in poi può dedicarsi alla precarietà della scrittura. A Vienna nasce il romanziere Canetti. Qui matura, dopo la grande manifestazione popolare del 15 luglio 1927 che provocò una violenta reazione della polizia, l'idea di scrivere un libro sulla massa. E, col tempo, pensa an- che ad una grande comédie humaine dei folli. Non è solo Balzac a fornirgli gli spunti; è la realtà che lo ossessiona col suo vociare spezzettato e indistinto, il brusio delle metropoli, lo scompiglio del dopoguerra, il fanatismo, la dissennatezza della gente. Canetti pensa alla grande, abbozza su tale tema ben otto romanzi, ma poi convoglia tutte le voci del suo mondo in un unico progetto, Auto da fé (Adelphi 1981) che è pronto nell'ottobre del 1931, ma dovrà attendere ben quattro anni per la pubblicazione. Aveva finalmente scovato un caso estremo, il singolo Peter Kien, una sorta di moderno Don Chisciotte, che pensa di combattere il disordine del mondo isolandosi fra i suoi libri, in una cartacea fortezza destinata a ripararlo dalla vita. Accanto a lui altri personaggi si muovono in un'ottica di totale isolamento, accecati da manie, da folli perversità: la moglie Therese, travolta dal desiderio sessuale, il nano Fischerle, accecato dal denaro e dal successo, il fratello Georges Kien, l'alienista che vorrebbe trasformare il mondo in una clinica psichiatrica.. Auto da fé è la grottesca, ironica metafora di un mondo che si è rinchiuso in se stesso, incapace di trasformarsi, sordo ad ogni ri¬ chiamo e ad ogni speranza. Il sinologo Kien, che finirà bruciato nel rogo dei suoi libri, in una pagina finale di altissima letteratura, irrigidito nel suo ruolo di intellettuale («una testa senza mondo», ricorda lo scrittore), non ha saputo abbracciare la religione del mutamento e della molteplicità. Follia e morte attestano così il cammino del disumano. Canetti abbozza creature che stanno agli antipodi della sua personalità attenta ai gesti molteplici della vita, curiosa di ogni riflesso intellettuale. Lui ha percorso in lungo e in largo l'Europa, ha conosciuto grandi scrittori, ha glossato con minuzia e acribia la propria epoca senza lasciarsi dominare da un'unica prospettiva, dai pericoli della specializzazione. «Tutta la mia vita non è stata altro che il tentativo disperato di eliminare la divisione del lavoro», ha affermato. Nemmeno la scrittura lo ha ancorato ad un unico genere. Dopo il grande romanzo si è lasciato sedurre dal teatro, scrivendo, a partire dal 1932, ben tre pièces cadenzate da umorismo e comicità (Einaudi, 1982), nelle quali l'inventario della realtà mitteleuropea, scossa e sminuzzata dai terremoti della storia, trapassa in dizioni e linguaggi standardizzati, limite invalicabile dietro il quale l'uomo si è raggelato, impietrito nelle sue monotone litanie. Sono testi - da Nozze alla Commedia delle vanità a Vite a scadenza - in cui anch'egli, come il suo grande maestro e modello Karl Kraus, pare ossessionato ancora una volta dal mormorio inesausto del mondo. Si è storditi dal ronzio delle voci, come se pulsioni e desideri si fossero rappresi nello stridio di anonime maschere acustiche. In questi testi, in cui scarsa è la sostanza teatrale, Canetti ha ribadito una visione quasi apolicalittica della realtà, un delirio collettivo in cui svanisce ogni frammento di umana pietà. E spesso ha coniugato tutto ciò con temi che nel frattempo, dopo la sua fuga da Vienna nel 1938 con la moglie Veza, stava elaborando a Londra nel libro su Massa e potere: totalitarismo, paranoia, intolleranza. Lui, amico di Grosz e di Babel, di Musil e di Broch, lettore inesausto di Bùchner e di Kafka, uditore entusiasta di Karl Kraus, è divenuto il simbolo di una tradizione che raccoglie il proprio passato a testimonianza e difesa di un umano sentire improntato alla tolleranza e alla profondità dei valori in un'epoca dì disorientamento. Il Premio Nobel per la letteratura ottenuto nel 1981 ha dato ancor più consistenza alla voce di uno scrittore che ha sem¬ pre voluto dissimulare la propria immagine professionale: «Il nuovo piacere - leggiamo in una raccolta di aforismi -: il rifiuto di ogni esibizione pubblica». Depistava giornalisti molesti o ammiratori, imitando al telefono voci bizzarre. I segreti della propria esistenza li aveva dischiusi soprattutto nelle molte pagine autobiografiche da La lingua salvata a II frutto del fuoco e a II gioco degli occhi (Adelphi 1982, 1985). Continuava così a glossare la propria vocazione, a redigere un diario della scrittura, che era ormai, con i testi aforistici (si veda l'ultimo La tortura delle mosche, Adelphi 1993) una sorta di iniziazione alla verità, dove le il¬ lusioni però si bruciano e consumano fra gli interrogativi. Scrittore anomalo nel paesaggio moderno, autore di un unico romanzo, Premio Nobel discusso, sociologo e antropologo non patentato, saggista di rango, Canetti resta un intellettuale insofferente di ogni ruolo, che distilla una chiarezza senza la quale, come diceva Stendhal, il mondo è distrutto. Forse per questo ha sempre respinto nelle sue pagine il buio della morte. «L'ha chiamata per nome, l'ha odiata, l'ha respinta. Per poco che gli sia riuscito, è meglio di niente». Luigi Forte Ha voluto essere sepolto a Zurigo senza pubblicità vicino alla tomba dell'amatissimo JamesJoyce Qui sopra 10 scrittore Elias Canetti nel giorno in cui ricevette 11 premio Nobel. Nell'immagine in alto, un gruppo di ebrei dell'Europa orientale all'inizio del secolo

Luoghi citati: Bulgaria, Francoforte, Inghilterra, Londra, Massa, Vienna, Zurigo