CARLO MAGNO la scoperta del formaggio

CARLO MAGNO cibi d'autore. Il Castelmagno: sulle Alpi fra leggende contadine e storie di paese CARLO MAGNO la scoperta del formaggio EA leggenda veniva tramandata di padre in figlio, nelle lunghe veglie invernali, quando lassù, in cima alla Val Grana, la neve bloccava tutto in una lunga attesa, fatta di stupori e affabulazioni, di timori e di presenze soprannaturali, masche e «uomini selvatici», silvanelli e follettoni che ora aiutavano gli umani, ora combinavano scherzi feroci. E' la leggenda di un formaggio che un giorno lontano venne portato alla tavola dell'imperatore, ad Aquisgrana. La leggenda del Castelmagno, «lou Chastelmanh» come si chiama, più propriamente, nella lingua occitana parlata nelle alte valli del Cuneose. Fu in incontro regale: se Carlo Magno era il Sacro Romano Imperatore, l'unificatore d'Europa incoronato a Roma, il Castelmagno è un principe dei formaggi alpini. Un sovrano nato in una delle zone tradizionalmente più povere delle nostre Alpi, da un miracolo di sapienza tradizionale che si è mantenuto intatto nei secoli. La sua preparazione è laboriosa, lenta, richiede senso del tempo e intuito. Il margaro non può commettere errori mentre porta il latte di due mungiture a una temperatura pari a quella corporea per ottenere la «cajà» e separarla dal siero, asciugarla, lasciarla riposare. E' il primo momento, solenne, di un'arte antica. Poi, qualche giorno dopo, comincia la vera lavorazione: la cagliata, simile nell'aspetto a un formaggio fresco, viene rimescolata, compressa e sminuzzata prima di essere sistemata nella forma dove resterà due giorni per essere infine estratta e messa a maturare in grotte naturali o cantine umide. L'aspetto e il sapore caratteristico del Castelmagno, ci spiegano, deriva dalla lavorazione e dalla maturazione, dal particolare microclima della vallata che è decisamente più umido di quanto ci si potrebbe aspettare a queste altezze, più che non dalla qualità del latte. L'uomo conta più della mucca; e in Val Grana l'uomo da forse mille anni opera sapientemente il suo piccolo, straordinario miracolo, in condizioni niente affatto favorevoli, di confronto e di lotta con una natura poco generosa. Quel formaggio è tutta la sua ricchezza, un prodotto che per secoli veniva scambiato ai mercati con gli oggetti necessari per vivere, e quindi da consumare con estrema parsimonia. I valligiani avevano fino a cinquantanni fa un'alimentazione povera, e le testimonianze più antiche (le si può trovare in un libro di Fulvio Basteris e Beppe Garnerone, Mac de pan) raccontano un mondo chiuso e persino primitivo, una comunità che sopravvive (Castelmagno ora ha 150 abitanti, ma ancora nel primo Novecento ne aveva più di mille) in condizioni brutali. C'è persino un'anziana che racconta di come, quando lei era ragazzina, a cavallo del secolo, la gente rifiutasse di mangiare i pesci dei torrenti, perché «pensava che fossero delle specie di serpenti d'acqua velenosi». Tempi remoti, sembrano: quasi come quelli di Carlo Magno. L'alta Val Grana è ancora «povera», anche se è facilmente raggiungibile con una stretta ma ottima strada asfaltata. Il Castelmagno ora è protetto dal marchio di denominazione d'origine controllata, è un formag- gio celebre e anche molto costoso, ovviamente insidiato da orribili imitazioni. La piccola popolazione che ha resistito al richiamo delle città e intende continuare a vivere - duramente - tra i monti vorrebbe poterne produrre in quantità maggiore, anche se i vincoli paesistici ostacolano la costruzione di nuove stalle. Il risultato sono tremila forme l'anno, di cinque chili, non una di più, che non sempre riescono a soddisfare la richiesta, ora che il Castelmagno è un formaggio di successo. Il piccolo paese ha avuto sindaci che non si sono certo risparmiati per far conoscere al mondo il loro «tesoro»: Gianni De Matteis per lunghi anni, e ora Beppe Garnerone che ha allestito nell'atrio della sua antica casa un museo dedicato alla tradizione contadina. A furia di insistere, sono arrivati sulle montagne gastronomi noti come Veronelli (che ha inventato gli gnocchi al Castelmagno) o Raspelli, che però una volta lo ha definito «gessoso» facendo molto arrabbiare i castelmagnesi. E sono arrivate le leggi di tutela, che hanno definito l'area di produzione nei comuni di Castelmagno, Pradleves e Monterosso Grana, e creato qualche piccola frizione con la tradizione millenaria del formaggio. Una, a lieto fine, ce la racconta il signor Mario Martini, che tiene le mandrie sull'alpeggio più alto della zona, e ha trasformato la sua malga in una straordinaria, anarchica fattoria. Sotto il rimorchio del trattore grossi maiali dormono riparandosi dal sole, oche e galline si azzuffano, mentre alcuni pavoni, indifferenti a tutto, incedono con passo regale. Il più bello e colorato ha per la verità qualche problema al piumaggio. Pare che alcuni escursionisti scostumati ogni tanto gli rubino una penna, e si dice che una volta, irritato, il signor Martini mise un cartello bene in vista sul sentiero che raggiunge la malga: «Le penne del pavone sono finite». Il cuore di tutta questa animazione è in cantina. Il locale, rigorosamente piastrellato, fa a pugni con l'idea di malga che ogni cittadino ha in mente, ma non con le norme piuttosto severe dell'Ussl. Qui ci sono gli attrezzi per fare il formaggio, ormai tutti in metallo, mossi dall'energia elettrica prodotta da un trattore. Poi si supera un gradino, e finalmente si dischiude la bocca della cantina «vera», quella dove le forme vanno maturando. Il pavimento è sempre bagnato, alla ricerca del giusto grado di umidità, una bilancia elettronica è l'unica concessione al moderno. E Mario Martini, molto divertito, ricorda come sia stato costretto a inventare un secondo formaggio, quando in virtù della denominazione d'origine controllata si trovò improvvisamente a non saper che fare del latte invernale, quello munto a valle. Per il Castelmagno, il latte deve essere munto nella zona di produzione, non basta più portare le forme a stagionare in alto, come per secoli si era fatto. Il pastore chiese consiglio, e alla fine trovò la strada: registrò un nuovo marchio, un nome da dare a quel formaggio che non poteva più chiamare Castelmagno. Scelse il soprannome del nonno (che sembrava proprio fatto apposta) e lo battezzò «Magnùn». L'unico problema fu che in tutto il parentado non si trovava più una fotografia di nonno Magnùn da stampare sull'etichetta, e bisognò andarla a cercare al cimi- tero. Solo qualche tempo dopo, quando ormai il nuovo formaggio era in - limitato - commercio, le fotografie cominciarono a uscire dai vecchi cassettoni. Troppo tardi: ormai il nonno, con il cappelluccio un po' stropicciato, augurava buon appetito con il sorriso del suo eterno riposo. E il signor Martini trova la cosa molto divertente, mentre taglia generose fette di Ca- stclmagno e di Magnùn per i turisti che si avventurano fin qui. Una gita a Castelmagno vale in sé, per il paesaggio, la bellezza della montagna, la simpatia degli abitanti. Ma soprattutto per il formaggio: è vero che non è impossibile trovarlo, con il marchio di garanzia e la caratteristica elica verde sulle forme, nelle città del Nord. E' però altrettanto vero che è sempre difficile imbattersi, nei negozi, in una fetta «tradizionale», e cioè abbastanza matura, con le inconfondibili muffe che fanno corona al cuore bianco della pasta nelle zone più prossime alla crosta. Il Castelmagno deve essere forte e un po' piccante: dovrebbe mangiarsi adulto, e non «giovane», quando la sua polpa è ancora di un bianco abbacinante, come invece viene consumato. Questa, almeno, è la tradizione, nata quando le forme, prima di raggiungere le città, avevano tutti il tempo di maturare. Ora il mercato tende a respingere il formaggio stagionato, e i produttori si adeguano. Una fetta di Castelmagno maturo, magari con il miele (che certo è un modo gradevo¬ lissimo di metterlo in tavola, anche se assolutamente moderno, inventato dalla gastronomia raffinata dei nostri giorni) può portarci molto prossimi a un momento di rivelazione, come ricordò una volta Mario Soldati. Ma può anche aprire orizzonti, mettere sulla strada di una nuova ricerca: perché questo formaggio, pur notissimo, conserva gelosamente insospettabili segreti, che non hanno mai superato i confini della Val Grana. Un esempio? Esiste un modo antico di mangiarlo, né maturo né giovane, ma anzi bambino, neonato, nascituro: un modo questo sì addirittura «filologico», che si tramanda nelle famiglie e probabilmente non si affaccia neppure nei ristoranti. Ma se ci si avventura in un circolo Acli della zona, quello gestito ad esempio dalla signora Garnerone, si potrà aver la sorpresa di vedere in tavola la cagliata di pochi giorni, e cioè il risultato della primissima fase di lavorazione, che ha l'aspetto di un formaggio fresco. E' la «toumo», la toma assai difficile da trovare anche perché i margari non la vendono volentieri. Impastata con le patate, è la base del piatto tipico della vallata, i «ravioles», antenati degli gnocchetti al Castelmagno. Questi sono gnocchi «di» Castelmagno, dal sapore delicatissimo, appena asprigno. E c'è di più: la «toumo» può essere tagliata a fette sottili, ricoperta con foglioline e fiori azzurri di borragine, un velo d'olio: il risultato estetico è eccellente, il sapore meraviglioso. Segreti. Il Castelmagno li ha difesi per il lungo arco di secoli della sua storia. Il primo documento che attesta l'esistenza del formaggio è del 1232, conservato nell'archivio del comune alpino. Il conte della zona, alleato del marchese di Saluzzo nel lungo conflitto perso contro il comune di Cuneo, veniva «condannato» a pagare ai cuneesi trenta forme l'anno a titolo di riparazione. Già nel XIII secolo, quel prodotto aveva evidentemente una certa notorietà e una lunga tradizione alle spalle. Lunga abbastanza da sprofondare fino al IX secolo e raggiungere il signore dei Franchi? Beh, non esageriamo. La leggenda è probabilmente nata dall'accostamento fra il nome del luogo e l'attributo dell'imperatore. Il primo a raccon¬ tarla sarà stato sedotto da un'idea di grandezza: Castelmagno, San Magno (che viene onorato nel santuario sorto in mezzo ai pascoli, su un antico luogo di culto precristiano), Carlo Magno. E chissà, anche il dio Marte, che è ricordato in un'ara votiva di epoca romana inserita nelle murature del santuario, dio guerriero ma anche pastore. I primi insediamenti stabili oltre i mille metri (e qui ci si avventura molto oltre) sono posteriori all'anno Mille, ma da epoche immemorabili i mandriani hanno condotto su questi pascoli le loro bestie, e pregato i loro dei. Quando, col volgere dei secoli, nuove popolazioni salirono per la valle e costruirono le loro case, portarono con sé gli echi delle canzoni di gesta, il mito del re che sconfisse arabi, sassoni a avari, un'idea di maestà e di forza. E quando si scelsero il santo protettore (che nell'iconografia ha cambiato d'abito tre volte: prima elegante principe dall'aspetto rinascimentale, poi guerriero della legione tebana, ora - pare - più pacificamente monaco) il cortocircuito deve essere stato irresistibile. Come non tributare al grande imperatore il postumo omaggio del loro prodotto più importante, il simbolo della loro grandezza? E come non rinunciare - la cultura montanara non manca di arguzie - a impartire una lezione, a lui e ai più remoti posteri? Dice infatti la leggenda che qualcuno, a corte, fece osservare al sovrano come fosse un errore da parte sua limitarsi a mangiare il cuore del formaggio, scartando tutta la zona più bruna e piccante, a ridosso della crosta. Carlo Magno si lasciò convincere e, dopo aver assaggiato la parte più matura, stabilì solennemente che quel formaggio non dovesse mai più mancare dalla sua tavola. I consumatori d'oggi sono avvertiti. Da una generazione all'altra nelle lunghe veglie invernali sognando Aquisgrana... E solo alla fine l'imperatore capì qual era il «segreto» 3000forme l'anno per un prodotto raro e prezioso Secoli di miseria ma con un grande orgoglio: l'antica sapienza del pastore nlllÉl flW» «A/ Sopra, il santuario di Castelmagno con il colonnato ottecentesco Qui accanto, le forme di formaggio sulle rastrelliere per la stagionatura Forme di Castelmagno nelle cantine dell'alta valle. A destra, il sindaco Beppe Garnerone con Mario Martini e Mario Baudino. Sotto, incoronazione di Carlo Magno, da un codice miniato