IL PRESIDENTE SENZA AUTORITÀ di Vittorio Zucconi

Con Falcone, Chinnici e Cassarà collaborò alla ricerca delle prove per il maxiprocesso Accusò i clan per la strategia delle bombe kennedyani quando fu eletto nel 1992, oggi ha dovuto convenire che la Presidenza Clinton è un calvario di buone intenzioni e di pessimi risultati, un purgatorio di lamentazioni televisive contro tutti, la stampa, le lobbies, il cattivo Parlamento e un deserto di incompetenza professionale. E' più facile trovare «clintoniani» in Italia, oggi, che in America. La popolarità del Presidente è in continuo ribasso, a conferma (rassicurante! che la tv, gli spot e la telegenia non sono mai un surrogato permanente ai risultati e la comunicazione funziona solo quando si ha qualcosa da comunicare. Molto era prevedibile, compresi scandali e scandaletti, ma quel che ha sorpreso negativamente è stata la pochezza professionale, la mediocrità della «squadra» che Clinton ha costruito per governar^ con sé. Dopo aver fatto tanto per indossare il mantello di Kennedy, il nuovo Presidente non IL PRESIDENTE SENZA AUTORITÀ' ha capito la lezione sostanziale del suo idolo e modello, che è la assoluta, imprescindibile necessità di circondarsi di personaggi di altissimo livello intellettuale e professionale per governare. Senza la sua «Camelot», senza la corte di scrittori, economisti, consiglieri, storici della quale si era circondato, Kennedy sarebbe probabilmente rimasto quel ragazzo viziato e straordinariamente simpatico che aveva dato modesta prova di sé come senatore. E' una regola ferrea delle democrazie presidenziali, dei sistemi politici fortemente personalizzati e senza strutture mediatrici di partito, che il leader sarà giudicato per la gente che si mette intorno. Del resto, sta accadendo anche in Italia a Berlusconi. La credibilità del presidente sarà la credibilità dei suoi collaboratori. I suoi successi saranno i successi dei suoi uomini. E, cosa ancora più importante, i fiaschi saranno non suoi, ma saranno i fiaschi dei suoi sottopancia, da gettare in pasto all'opinione pubblica. Ma se il «boss» vuol restare solo, chi licenzierà, in caso di rovesci? Se stesso? A questa regola ferrea, Clinton non ha voluto sottoporsi. Non lo ha fatto per il timore, fatale a tanti leaders, di circondarsi di gente «più grande» di lui, per l'influenza della invadente moglie che ha preteso i suoi amici e amiche a corte scelti secondi criteri ideologici, per il provincialismo che suggerisce di portare a palazzo solo «yesmen» e compagni di paese o per la presunzione che fa pensare di essere comunque il migliore di tutti e di non aver bisogno di forti «spalle». Il risultato è oggi visibile: in assenza di scudi credibili, Clinton è il parafulmine di ogni crisi, il bersaglio di ogni malumore. Se Reagan era il presidente al «teflon» al quale nulla restava appiccicato, Clinton è un presidente al «velcro», al quale tutto si attacca. Per uscire da questo circolo vizioso, dovrebbe risalire la china del prestigio presidenziale, usando toni elevati ed evitando i frusti alibi dei «complotti giornalistici» e delle «lobby». Dovrebbe ritrovare dignità e autorità, reclutare subito ministri e collaboratori di grande nome e forza, capaci di fare immagine internazionale e di proteggere lui, e la Casa Bianca, dal quotidiano assalto dei politici che sentono la debolezza del Presidente e cer¬ cano di approfittarne - o di prendere le distanze - in vista delle elezioni legislative del prossimo novembre. Nonostante tutto potrebbe farcela, e forse dovrebbe farcela, perché non tutto ciò che Clinton sta facendo è da buttare, al contrario. La «Legge sul Crimine», bocciata dal Parlamento, che vuole limitare la diffusione delle armi, o la tormentatissima «Riforma Sanitaria» oggi in discussione sono lodevoli, addirittura storici sforzi per invertire le tendenze peggiori della società americana. E i due anni che mancano alla campagna presidenziale del 1996 sono un tempo politico lunghissimo, capace di far risorgere i morti e di umiliare i trionfatori, come scoprì amaramente George Bush. Ma Clinton deve smettere subito di essere il governatore belloccio e telegenico di un piccolo Stato di provincia e rendersi finalmente conto di essere il Presidente degli Stati Uniti. Come mi permetto di scrivere dal giorno della sua elezione e di ripetere ancora oggi, Clinton, il figlio dei Fiori e di Woodstock, deve finalmente decidersi a diventare adulto. Vittorio Zucconi

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