Economisti «condizionati»?

Perché sono tutti anti-Berlusconi discussione. Non per ideologia ma per solidarietà di «casta»: le tesi di Monti, le reazioni dei suoi colleghi Economisti «condizionati»? Perché sono tutti anti-Berlusconi Mi A davvero esiste una «lobby» degli economisti ostile al governo Berlusconi? Come mai quegli stessi speciabsti che prima avevano appoggiato le politiche economiche di Ciampi, ora non risparmiano il Cavaliere? Una possibile risposta è venuta da uno dei più illustri rappresentanti della categoria, il rettore della Bocconi Mario Monti. Nessuna recondita intenzione filoberlusconiana. In un editoriale sul Corriere della Sera ha spiegato che 1'«inadeguatezza pohtica» dell'esecutivo da sola non basterebbe a spiegare il «malessere dei mercati», se su questa non si innestasse una sorta di «moltiplicatore psicologico». Più che un'accusa è una constatazione, e anche un'autocritica. Esiste un condizionamento «culturale e ambientale», sostiene Monti: «La gran parte di noi economisti, e in genere commentatori di politica economica, ha riferimenti culturali, tradizione di frequentazioni, appartenenze istituzionali più vicini ad ambienti che si riconoscono nell'opposizione». Ne consegue che se ha da criticare anche aspramente il nuovo governo, l'economista può farlo «abbastanza a cuor leggero», sicuro di avere «quasi tutti i colleghi» dalla sua parte. Se invece aveva da eccepire sulle misure economiche del gabinetto Ciampi, dove la categoria era autorevolmente rappresentata dai vari Spaventa, Barucci, Gallo... In un'intervista alla Stampa di sabato, Monti ha ricordato 1'«intima sofferenza» da lui provata nel luglio '93, quando dovette osservare che il programma presentato dall'ex governatore in materia di finanza pubblica era «meno coraggioso» di quello di Amato: «Era mio dovere dirlo, ma mi dispiaceva davvero...». Tutta colpa deH'«ambiente», dunque? Arturo Gismondi, sul Giornale di domenica, va per le spicce. L'atteggiamento degli economisti, come quello degli intellettuali italiani in genere, dice, è degno di «una cultura un po' misera, dagli orizzonti limitati», e ha un nome ben preciso: «conformismo». «Sì, è vero, siamo tutti fondamentalmente all'opposizione» rico- nosce Napoleone Colajanni, già comunista migliorista, che tiene a qualificarsi come uno dei pochi economisti ancora marxisti. Anche se il presupposto, per lui, è che «risulta difficile, oggi, trovare un intellettuale che abbia buone ragioni per sostenere il governo». E lo spirito di casta? «Vero anche questo. Esiste una profonda solidarietà reciproca, un'affinità culturale». Tanto da averli spinti a una sorta di autocensura nei confronti del governo precedente? «Si, sì. Era evidente che tutta una serie di cose non andavano. Tacendo, per solidarietà con Ciampi, non hanno reso un buon servizio al Paese». Colajanni chiama in causa il vasto gruppo di economisti e commentatori economici che ha nella Repubblica e nel suo direttore, Scalfari, un punto di riferimento. Un autorevole rappresentante di questo schieramento è Mario Pirani, che si definisce «liberista», proprio come Monti, ma che non è per niente d'accordo con lui: «In realtà gli economisti italiani, dai monetaristi ai keynesiani, hanno sempre riservato un'attenzione prioritaria al deficit pubblico. Per questo sono stati all'opposizione dei vari governi che hanno preceduto i tentativi di Amato e Ciampi, particolarmente lassisti su questo tema. Ora sono dovuti tornare all'opposizione, come ai tempi di Craxi e Andreotti: non certo per spirito di casta». Se i commentatori economici non si fanno pregare, gb accademici - si capisce - sono più cauti nell'esprimersi. Molti rispondono ma chiedono di non essere citati. Quel che si coglie è una certa diffidenza per i ministri economici. Quanto meno, un preciso distinguo: «Dini? A stretto rigore, non un economista ma un banchiere. Tremonti? Un fiscalista. Pagbarini? Faceva il consulente per le società di revisione dei conti». Sì, però Martino... «Lui è l'unico economista vero, non a caso l'hanno messo agli Esteri». D'altra parte Martino è anche uno dei pochi, pochissimi liberisti autentici in Italia. Lui e Ricossa. Nell'ambiente circola una battuta: i due evitano perfino di salire sullo stesso aereo, perché se casca... «I miei colleghi più giovani sono sempre stati piuttosto di sinistra testimonia Ricossa -, hanno avuto Keynes per maestro». E, con una punta di malignità, osserva che è ben comprensibile: «Credere che il mercato vada controllato significa candidarsi a posti di lavoro negb organismi pubbbei di vigilanza. Mentre professare il liberismo vuol dire candidarsi alla disoccupazione...». Poco propensi a mitizzare il mercato sono tanto gb economisti «Uberai» (circa l'80% della categoria, da Spaventa a Sylos Labini, Fuà, Modigliani), quanto queUi più a sinistra (Salvati, Vaciago, Lunghini, Becattini, D'Antonio) e quelb di tradizione cattolica centrista (Andreatta, Prodi, Lombardini, i gruppi bolognesi di «Nomisma» e di «Prometeia»). Così si spiega il diverso atteggiamento verso Ciampi e verso Berlusconi. Mario Deaglio, professore all'Università di Torino, già direttore del Sole-24 Gre, editorialista economico della Stampa, condivide l'anabsi di Ricossa: «In Italia, a differenza che negb Stati Uniti e in Inghilterra, non c'è mai stata una forte tradizione liberista. Nulla di confrontabile ai "Chigaco boys" di Milton Friedman». Però anche a Londra e a Washington, sottolinea, l'avvento degb ultraliberisti Reagan e Margaret Thatcher non riscosse l'approvazione incondizionata degli accademici. «In Inghilterra ci fu un manifesto firmato da oltre 300 economisti, quasi tutti i professori universitari, contro la pobtica economica della Thatcher. Era la manifestazione di sfiducia degb accademici di fronte a un governo che non schierava nessun economista classico, ma sempbci speciabsti settoriali. Nella squadra di Reagan un liberista accademico c'era, Feldstein, ma dopo una breve resistenza, quando vide che il presidente continuava a dissestare il bilancio pubbbeo, se ne andò». Liberisti o meno, a torto o a ragione gli universitari in tutto il mondo sembrano diffidare delle pobtiche economiche elaborate dai «profani». Fa eccezione Ricossa, liberista non berlusconiano e accademico controcorrente: «A me gb esperti di settore vanno benissimo, quelb come me è meglio che si occupino di fare lezione. Non vogbo dire che non ci sono alcuni professori in grado di amministrare: sono quelb che hanno acquisito un'esperienza pratica, sul campo. Peccato che in Italia si siano fatti le ossa più che altro nelle aziende pubbhche, dove si è sicuri di non fallire...». Maurizio Assalto Ricossa: ma i «profani» sanno governare meglio Iprofessori si occupino delle lezioni Colajanni: è vero, c'è affinità culturale Pironi: prima di Ciampi sempre all'opposizione Deaglio: anche in Usa e in Inghilterra accademici contro Reagan e la Thatcher Sergio RICOSSA, Antonio MARTINO, Gianni MARONGIU, Mario MONTI Beniamino ANDREATTA, Romano PRODI, Siro LOMBARMNI, Patrizio BIANCHI, Paolo TANTAZZI Luigi SPAVENTA, Paolo SYLOS LABINI, Carlo Azeglio CIAMPI, Giorgio FUA', Tommaso PADOA SCHIOPPA Qui accanto Sergio Ricossa. Più a destra, Mario Monti e Napoleone Colajanni

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