IL MAESTRO SENZA MORALE di Enzo Bettiza

Il ministro Tatarella autorizza l'emissione IL MAESTRO SENZA MORALE fondatore con Gramsci dell'Ordine nuovo e del partito comunista d'Italia, si direbbe che lo stato maggiore pidiessino tenda in particolare ad alimentare sommessamente la leggenda democratica del «Togliatti nazionale» che, appena sbarcato da Odessa a Napoli nel 1944, si rimbocca le maniche e dà il via alla rinascita parlamentare e costituzionale della Repubblica postfascista. Si direbbe invece che lo stesso stato maggiore tenda ancora a sorvolare, anzi a tacere, sul «Togliatti moscovita». Perché? Perché questo secondo Togliatti kominternista e ultrastalinista, stretto collaboratore di Dimitrov nell'Internazionale russificata, di cui condivise senza batter ciglio ogni svolta e ogni misfatto, è storicamente il più insidioso per la buona reputazione dei neocomunisti italiani: quasi una mina vagante tra i flutti degli orrori passati, la quale, soltanto sfiorata, potrebbe esplodere mandando in frantumi la bella immagine piemontese del primo Togliatti rivoluzionario e l'aulica effigie patriottica del terzo Togliatti nazionale. Certamente, gli eredi reticenti del togliattismo non stroncano più, con l'arroganza apodittica di un tempo, le prove e i dati d'accusa accumulati nei decenni sul conto di Togliatti dai vari Tasca, Silone, Berti, Mieli, Caprara. Ma in proprio non hanno fatto, non fanno assolutamente nulla per completare tale documentazione ormai storica, ormai stagionata, eppur sempre incompleta. Si direbbe piuttosto che gli epigoni del comunismo italiano, anziché affrontare di petto lo scoglio, preferiscano aggirarlo: affidandosi, da un lato, alle riluttanti e sapienti ricostruzioni storiografiche di Paolo Spriano, e seguitando, dall'altro, a coltivare la «leggenda rosa» di un Togliatti padre fondatore dell'Italia repubblicana dopo la caduta del fascismo. Un Togliatti moderato, conciliante, disponibile di volta in volta alla collaborazione con la monarchia badogliana nel governo Bonomi, con la Chiesa cattolica e con De Gasperi nella riassunzione costituzionale dei Patti Lateranensi, con i socialisti nenniani nella riedizione dei fronti popolari e dei patti d'unità d'azione. L'impressione che per alcuni decenni i comunisti hanno continuato a darci è che, sorvolando sulle correità staliniane del «compagno Ercoli», volessero quasi contrapporre a quel fantasma da Hotel Lux un Togliatti diverso, migliore, redento, un umanista che dialogava con Croce sulla filosofia vichiana e che con Vittorio Gorresio discettava sulle rime del Poliziano: insomma, quasi un notabile liberalsocialista perfettamente e aristocraticamente sincronizzato sugli umori e le tradizioni culturali dell'Italia più antica. Anche questo faceva parte di un cliché, di una «leggenda rosa» non corrispondente alla realtà profonda dell'uomo, alla sua mentalità di gesuita bolscevizzato, alla sua sperimentata e duttile professionalità leninista: «Un opportunista e un parassita politico», secondo le dure parole di Alfonso Leonetti che lo conosceva bene ed era stato membro dei primi e cangianti gruppi dirigenti italiani. In effetti, non c'era contrasto ma intima coerenza e continuità fra il Togliatti che cita il Poliziano e l'Ariosto e quello che una volta paragonava la mediocre prosa di Stalin allo stile di Lutero, fra il Togliatti in doppiopetto che nel 1944 opta per la monarchia e il grigio funzionario kominternista che nell'agosto 1938 corre appositamente da Madrid a Mosca per sottoscrivere l'atto di condanna e di morte dell'intero comitato centrale polacco. Qua e là, a Mosca come a Roma, ritroviamo nel fondo d'ogni azione tattica o diplomatica togliattiana la logica del «perinde ac cadaver»: servire con dedizione, capacità, freddezza, e soprattutto con adamantina professionalità, gli interessi generali dell'Urss e quelli particolari di Stalin. Prima della guerra, nel '38, i comunisti polacchi andavano eliminati poiché rappresentavano un elemento di disturbo sulla strada che di lì a poco avrebbe portato Stalin a incontrare Hitler sopra il cadavere della Polonia. Nella metà del '44, bisognava alleggerire la pressione armata germanica sul fronte russo impegnando più a fondo i tedeschi sui fronti occidentali: salvare momentaneamente la monarchia sabauda significava garantire gli alleati angloamericani ì sulla stabilità politica dell'Italia postfascista e significava facilitare, al tempo stesso, il rovesciamento di fronte dell'Italia a fianco degli alleati contro i tedeschi. Non a caso, mentre Togliatti tende la mano a Badoglio, il capo comunista francese Thorez offre la sua leale cooperazione politica al generale De Gaulle. Il capolavoro del «Togliatti italiano» consisterà nel saper combinare magistralmente una politica di finzione legalitaria e democratica in Italia con la legittimazione rivoluzionaria che al pei veniva dal suo privilegiato «rapporto di ferro» con l'Unione Sovietica. Tale combinazione, solo in parvenza eccentrica e contraddittoria, diverrà regola nella vita del pei dal dopoguerra quasi fino all'estinzione dell'Urss: il partito, legittimato nella sua identità rivoluzionaria dal vincolo speciale con Mosca, potrà perciò evitare di porre all'ordine del giorno la «rivoluzione nazionale» e anzi potrà concedersi il lusso di ogni sorta di giravolte tattiche, dal lontano flirt con Badoglio fino al compromesso storico con la de nella metà degli Anni Settanta. L'identità comunista del partito, garantita e legittimata dal legame ancor sempre terzinterna- zionalistico col pcus, non ne soffrirà affatto. Nel corso di questa lunga strategia di finzione democratica, in cui il partito finirà quasi per credere seriamente, Togliatti riuscirà anche a trasformare o, quanto meno, a mimetizzare la sua originaria professionalità leninista nell'involucro di una normale e rispettabile professionalità prima ministeriale e poi parlamentare. Accanto a De Gasperi, Togliatti, per tutte le ragioni dette, apparirà senz'altro come il più tecnico, il più accorto e il più dotato dei politici italiani nella fase iniziale della Repubblica. Egli in un certo senso rappresenterà il modello contrario a quello, caro ai vecchi esponenti del partito d'azione, di un politico avventizio, nobilmente dilettantesco, ben radicato nella società civile, alieno dal percepire l'attività parlamentare o governativa come mestiere e pane quotidiano. Oggi si ripropone su un altro piano, con la fine della prima Repubblica, che fu anche nel bene e nel male una Repubblica togliattiana, il dilemma di scelta tra politica professionale e non professionale. Una certa nostalgia che circola per la professionalità degli uomini politici scomparsi, anche se in parte giustificata, non deve tuttavia farci prendere lucciole per lanterne. L'innegabile professionalità tecnica di Togliatti era alta proprio perché la sua moralità politica era bassa. Non va dimenticato che Togliatti era stato, essenzialmente, un grande e cinico virtuoso della sopravvivenza. Direi, un professionista della sopravvivenza. Sopravvisse con ineccepibile professionalità nell'obitorio della rivoluzione, chiamato Hotel Lux, durante gli anni peggiori del terrore staliniano; poi superò se stesso, sopravvivendosi con altrettanta professionalità nelle vesti accurate del parlamentare borghese, ormai dimentico di aver indossato per diversi anni la grigia giubba militare del funzionario bolscevico. Quale, fra i due, era stato il vero Togliatti? Forse ambedue, o forse nessuno dei due. Probabilmente, presi nel vortice delle loro multiformi finzioni e mimesi, Togliatti ed Ercoli continueranno a sopravviversi alternativamente in cangiante simbiosi professionale anche nell'aldilà. Enzo Bettiza