Quando la vita fa tappa a TERMINI

Quando la vita f quelli della stazione. Tra fretta, valigie e vacanzieri, i giorni di chi non ha una meta Quando la vita fa tappa a TERMINI RACCONTI D'ESTATE ROMA DAL NOSTRO INVIATO Lei (morbida) supera il cristallo luminoso di Roma Termini e cammina verso uno dei 25 sportelli della biglietteria. Nella borsa piccola ha due panini, la Settimana enigmistica, un pacchetto di Rothmans sottili. Il facchino passando le chiede permesso. Da 29 anni lei ha un indirizzo, da cinque un lavoro, da due un fidanzato. Come ogni estate ha anche un posto dove qualcuno l'aspetta. Pensa al mare. Nessuna cattiva ombra può insidiarle il cuore, forse l'afa che appiccica i capelli e finirà per rovinarle la maglietta amaranto. Intorno a lei, tanta gente gentile che naviga dentro alla stessa luce di sole e vetro, uomini con bambini, mamme vestite a fiori, poliziotti con ricetrasmittente, giapponesi in calzette bianche, e gli occhi blu delle gocce Stilla, come se qui ci fosse già un po' di spiaggia. Fila, sportello: ((Ancona andata, seconda», dice. Lui (veloce) supera il cristallo cieco di Roma Termini, scarta un facchino che, cristo santo, sta per finirgli addosso, guarda di passata un randagio pieno di stracci e accendini, incrocia gli occhi di un tale con camicia fuori, magari uno sbirro (la 7,65 piatta la tengono tra la schiena e il culo), invece no, quello neanche lo nota. Lui ha una trentina d'anni, un paio di vene fuori uso, scarpe che gli fanno bruciare i piedi, un sacco di guai alle spalle e davanti. Cammina dritto oltre la biglietteria e le lupe Spqr innevate dello Shop viola, al di là di quel branco di giapponesi imbambolati... Il suo sguardo di cacciatore percepisce presenze di uomini che gli assomigliano, tipi che non saprebbero per dove partire e che al momento neanche sanno dove tornare. Per esempio quello in maglietta che fiuta l'aria intorno alla scala. Lo supera sentendosi il suo sguardo addosso, entra nel corridoio d'ombra che lo porta all'uscita di via Giolitti, dove un biglietto in polvere vale 30 mila lire. Niente fila, niente sportello: «Dammene un quartino», dice. Questione di viaggi, qui a Termini, e di destinazioni. Due sole vite (lei, lui), ma opposte, tra le 750 mila che ogni giorno d'agosto transitano nei 110 mila metri quadrati di mondo cresciuto intorno alle locomotive e alle valigie. Storie che passano nello stesso minuto senza incrociarsi e quando lo fanno finiscono per diventare cronaca (cento denunce al mese quest'anno, per aggressione, furto, violenza, tutta roba consumata appena fuori da qui, tra gli autobus di piazza dei Cinquecento e la rete di marciapiedi pieni ogni notte). Per lei, che si chiama Elisabetta, gonna leggera come una nuvoletta, capelli e occhi neri, un viso che sa sorridere anche quando ti dice: «Scusi ma adesso sto proprio partendo», la stazione Termini è solo un treno pulito che l'aspetta, una rumorosa pianura urbana da attraversare in orario, con appena un po' di batticuore («Paura? Se fosse notte sì»), e poi da lasciarsi alle spalle, come fanno i treni quando vanno via dai neon e si infilano nel grigio dei binari grande quanto l'orizzonte. Per lui, che si chiama Riccardo, secco e solo come un prato della Casilina, occhi acquosi, camicia sudata, Termini è uno spazio senza orari, un cantiere perpetuo pieno di cose e di uomini scaricati qui da altre vite, a gal- leggiare nella schiuma di traffici, storie, inseguimenti, sonno. Tutto in bilico sui ponteggi che vanno da via Marsala a via Giolitti, cento pensioni Suez piene di marocchini, cento botteghe spalancate sulla strada con altri nordafricani che lavano, caricano, vendono e donne grasse che cuociono pizza e tranci d'agnello, cipolle, hamburger, tra angurie sbiancate dal caldo, mosche, ghiaccio, ventilatori, auto scassate, spazzatura e topi. La pancia di una nave che non salperà mai e che ha una stiva infinita - di sogni chimici e contrabbando, ferrivecchi e Roipnol, materassi in affitto e lavoro in nero -, in un certo angolo anche la polvere che cerca Riccardo e che gli nutre il sangue. «Che vuoi?», ti chiede, mani in tasca, fermo, due occhiate a perlustrarti. E poi respira: «Cazzooo io qui ci sopravvivo. Dico, volendo ci trovi tutta la merda che vuoi, compresi i soldi, il sesso, e tutte le dolcezze, un sapone, 'na doccia, un pasto caldo, gratis oh, da quelli della Caritas, cristosanto, ma ce sei statooo? Vacci. Il più sano là dentro c'ha la rogna... Me compreso. Da due anni ci vado e i ragazzi che-nunso'-preti sono in gamba, gli unici che in 'sto casino brutto mi danno una mano e non un calcio...». E si guarda intorno, come se fosse ancora più solo, mentre una famiglia - lui con due valigie, lei con due bambine, loro con due ghiaccioli - vanno verso il Salerno-Battipaglia delle 19,35 e l'altoparlante grida: «Espresso 1149 da Genova Principe delle ore 19,20...». E tre carrelli elettrici passano in fila carichi di sacchi grigi della posta, e il Reggio Calabria delle 18,50 fa scattare i freni portandosi dietro un ventata d'aria bollente e poi una folla che splanca sportelli e scende e invade il marciapiede numero 17, nessuno che rallenti, tutti via, con lo sguardo dritto di chi è arrivato e ha un autobus, un taxi, un figlio da raggiungere. Termini sdoppia il mondo, proprio come fa ognuno dei suoi 300 scambi (centralina ancora manuale anno 1939) quando divarica le direzioni di due treni partiti paralleli. Uno che viaggerà diritto sotto al cielo ordina- rio della vita in vacanza, e l'altro che invece gira per infilarsi nella grande galleria dei destini deragliati. Al colpo d'occhio, sotto alla ruggine dei soffitti, vedi solo una grande confusione, la folla colorata, i ragazzi stranieri accampati («Rome is beautiful»), la ressa di solitari in transito che non hanno spazi da conquistare, ma solo tempo d'attesa, tra le luci di vetrine (libri, cravatte, peluche, aspirine) e pagine di giornale, telefoni dentro a bolle di vetro e cartelli, segnaletica, elenchi d'alberghi, orari. Poi di colpo, sotto all'orologio, ti accorgi di quella ragazza in carrozzella, con sacchetti di cellophane pieni di vestiti, e bionda, scarpe senza lacci, faccia segnata da tutto, che un attimo prima era invisibile e invece c'è sempre stata, lì ferma. «Vattene», ti dice appena provi a parlarle, occhi grigi e duri, le dita che ogni momento ^costano i capelli. «Lasciami stare, sparisci, hai mille lire?». «E' una svedese arrivata prima che arrivassi io», dice uno della Polfer, camicia a pois fuori dai pantaloni, capelli col gel, orecchino, Nike ai piedi, piedi che camminano qui da tre anni, dietro ai borseggiatori cileni, e agli spacciatori italiani, alle bande di albanesi, e ai tossici solitari come Riccardo. «Noi la chiamiamo la Svedese, e forse lo è davvero, non dà noia, al massimo si ubriaca e fa colletta. Gira con la sedia a rotelle, ma il suo posto è quello, la colonna». E quando ti accorgi della Svedese, lo sguardo entra automaticamente su un'altra lunghezza d'onda, cominci a inquadrare gli invisibili, quel vecchio laggiù, seduto sul marmo della panchina, che non ha una borsa di fianco, ma un cappotto. Quei tre ragazzi biondi con la barba sfatta, romeni che l'estate scorsa sono arrivati qui credendo di trovare tutto («L'Italia per noi era un grattacielo... come si dice, con gli ascensori aperti...»). Quell'uomo in giacca di lana e ciabatte. Quel senegalese con una corda al posto della cintura. Ed è allora che incontri Agatino, veterano della stazione, forse cinquant'anni, canottiera verde, la voce in falsetto che gli esce da un corpo bianco c grasso, lento d'incedere, «Sono tanto stanco», dice, e tormenta la sua busta Coin chiusa con un fermaglio: «E' il mio regalo per don Luigi, devo andare, sto andando...». Andando dove? «Là sotto» e indica il binario 22. Sotto al binario 22 c'è l'atlantide degli invisibili, mezzo chilometro di zattera che i ragazzi della Caritas, i volontari, tengono a galla da un anno e mezzo lavorandoci duro. E Gennaro Di Cicco dietro a una scrivania e a un paio di occhiali, fa il conto di un miracolo che per lui è solo pazienza: «Qui siamo l'unica mensa serale, 970 pasti al giorno, e siamo l'unico dormitorio, 116 letti, ma è poco più di niente» e s'interrompe, indica il soffitto che adesso sembra cascare perché al binario 22 è arrivato il rapido delle 20,01. Questi stanzoni bianchi e gialli erano il posto ristoro dei militari in transito. Monsignor Luigi Di Liegro, il don Luigi a cui Agatino ogni giorno porta un regalo pescato in qualche punto della città, l'ha ottenuto dalle Ferrovie e con i suoi ragazzi ne fatto un posto pulito e niente affatto squallido, anche se le facce che incontri, gli uomini raggomitolali sui divani che vedi, e i pentoloni, l'odore di cibo e miseria, ti tengono i muscoli in allarme, paura di cascare. Tra la mensa e il dormitorio ci hanno messo un ambulatorio (l'inferno vero: sieropositivi, al¬ colisti, tossici, schizofrenici, depressi), le docce per ripulire gente che non si cambia da due vite, non si sveste, perché tutto quello che possiede gli sta addosso. Mariuccia, per esempio, una vecchina arrivata qui da piazza dei Cinquecento («Ogni notte per due mesi andavamo a portarle del cibo, ma lei ci scacciava, e poi un giorno, chissà perché, ci ha detto ciao e piano piano ha preso confidenza e alla fine di un altro mese ci ha seguito»), Mariuccia, dunque, viveva con tre giacche e due cappotti addosso. Qui pensavano tutti che fosse grassa, invece quando il medico l'ha convinta a fare la doccia e a lasciarsi visitare l'hanno scoperta magrina, con 2 milioni in banconote da mille lire infilate sotto ai maglioni. E adesso è di là, in camiciola, pronta per andarsene a letto visto che ha reimparato a dormire di notte. Perché qua sopra, sui marciapiedi, gli invisibili, dormono di giorno, quando Termini è piena di gente e di pattuglie. Di notte bisogna difendersi la pelle e la roba: «Sei matto? No che non puoi dormire - fa Agatino nel suo sussurro, scuotendo il testone -. Che nudo resti, garantito... Questi sono per don Luigi». E dalla busta saltano fuori due piccoli vasi di plastica con fiori di plastica, fregati chissà dove, ma Gennaro Di Cicco, infilandoli nell'armadio, ride: «Noi diciamo "sottratti"». «Vieni a vedere, è ora», dice uno dei volontari. E in fondo al corridoio si allarga la mensa, tutta piena di teste chine sui piatti, e all'entrata c'è una delle più strane file di Roma, con qualche vecchio qua e là, qualche puttana colorata, ma per lo più giovani uomini arrivati da tutte le miserie i he ci circondano: romeni, albanesi, lunisini, croati, algerini, che visti tutti insieme, con i capelli tagliati male, e le magliette rimediate e i pantaloni scoloriti, e le bracca nude che hanno spostato mattoni e lavato piatti, facce che hanno visto quanto è dura una frontiera, e schifoso un carcere, e puzzolente la notte in una carcassa d'automobile, visti tutti insieme, dico, è come riconoscerli perché ti sono passati di fianco due ore fa, dentro alla nave-stazione. E adesso che è arrivata la notte sembra proprio un mare via Giolitti, un'onda nera ma piena di luci e uomini, bancarelle, motorini. Tra non molto, alle 23,35 partirà l'ultimo dei 244 treni di oggi, l'Espresso per Villa San Giovanni, poi basta si chiude, due cancelli automatici saliranno a sbarrare l'accesso alla galleria e tutte le porte di cristallo verranno fermate con i lucchetti. Ma anche se le 2500 persone che fanno marciare la stazione Termini treni, acqua, luce, merci, caffè se ne saranno andate a dormire nel resto di Roma, non c'è niente che si fermerà qua intorno. Dal terzo piano della Polfer escono le pattuglie notturne, ragazzi armati sotto alla camicia, uno che rumina la gomma e dice al suo socio: ((Andiamo, subalterno», poi ti sorride fatalista: «Eh, speriamo di arrestarne qualcuno stanotte». E mentre vanno verso strade loro, passa intruppata una comitiva di boy scout, «Forza ragazzi che perdiamo il treno», allegri con i loro cappelli, i loro fazzoletti da vacanza e sembrerebbero farfalle se non fosse per gli zaini. La voce metallica grida: «Termini, Roma Termini», i marocchini sloggiano e i tassinari si godono un po' d'aria con le portiere aperte: «Aho! quest'è l'ora che vengono fuori i gatti a due zampe e i guai». Quali gatti? «Ecché non li ha vvisti, quelli che magnano alla mensa? Loro so' i gatti». E un altro: «Qua di notte è una porcheria, chette credi... Tante valigie vedi di giorno e tanti coltelli e siringhe vedi di notte». Veramente all'unico morto ammazzato di quest'anno, un albanese, gli hanno tagliato la gola con una bottiglia, il sangue era là, sotto alla pubblicità Osram e i quattro ragazzi morti di overdose hanno scelto il Diurno per farsi fuori. Ma hanno ragione i tassisti, qui l'estate finisce a mezzanotte, quando tutti quelli come Elisabetta sono partiti da un pezzo e il doppio mondo torna a essere uno. Riccardo sarà finito da qualche parte, magari a mangiarsi un cocomero, magari in caccia dentro alla notte opalescente di Termini. Ma questa è già un'altra storia. Pino Corrias Nella folla in partenza sopravvive la «svedese» una bionda in carrozzella che intima: hai mille lire? Sotto i binari don Luigi ha creato il rifugio degli sbandati 970 pasti al giorno e centosedici letti Con la notte cala la paura chiusi i cancelli nei dintorni è come nel Far West JiMi Termini sdoppia il mondo, proprio come fa ognuno dei suoi 300 scambi quando divarica le direzioni di due treni partiti paralleli La facciata di Stazione Termini a Roma, invasa da vacanzieri e senzatetto che vivono di espedienti

Persone citate: Gennaro Di Cicco, Genova Principe, Luigi Di Liegro, Pino Corrias, Polfer, Rome, West Jimi