La storia

la storia la storia Settant'anni di duelli Il Gran Premio d'Italia a Monza è tanta, tantissima storia dell'automobilismo massimo: una storia sincopata, come da copione fisso e terribile, anche da tragedie, oltre che da momenti di solenne e intanto sfrenato entusiasmo popolare. Nacque, Monza, da quelle che si dicono esigenze autentiche dello sport dei motori: era il 1922, l'anno prima c'era stata una corsa riuscitissima a Montichiari vicino a Brescia, si era deciso che tanta gente, tanta passione, tanto automobilismo sportivo italiano, intitolato anche alla Fiat, meritavano una sede. Che tanta fede meritava un tempio. Costruito in ben pochi giorni, centodieci, nonostante intoppi burocratici serissimi, nel parco della Villa Reale, progettato dal Canonica nel 1797. Era stata realizzata la strada per le auto superveloci, sbalordendo la gente con il numero degli operai (3500), i 200 carri a cavalli, la ferrovia (80 vagoni, 2 locomotive) costruita apposta per portare via dal parco la terra, e portarci l'asfalto. Il progetto era di due circuiti che si integravano uno dentro l'altro, quello semplice di alta velocità, cioè la pista vera e propria, e quello cosiddetto stradale, di grande impegno e collaudo per gomme, telai, uomini: l'autodromo sarebbe stato completato soltanto nel 1955, in quel 1922 ci si contentò, per una spesa di 6 milioni, dei quasi 6 chilometri del circuito stradale. Monza fece in fretta a diventare il tempio. Bordino su Fiat vinse la prima corsa, poi cominciò la discussione, tipica di pochi posti di spettacolo, di competizione al mondo, se fosse Monza ad avere bisogno del grande pilota vittorioso, o se non fosse piuttosto il pilota ad avere bisogno di Monza, per essere davvero grande. Discussione platonica, la risposta si sa già, è la Scala che fa grande un tenore, non viceversa. Monza potè anche permettersi il lusso, necessario a quanto pare, intanto che tremendo, delle tragedie, che molti vollero attribuire alle esigenze del progresso, dazi da pagare, imposte che il mondo riscuote per potersi poi permettere certi passi. Nel 1928 morì Materassi e i pezzi della sua Talbot finirono sulle tribune, uccidendo 27 persone. Fu una delle più grandi tragedie dell'automobilismo e poiché anche allora si usava dare le colpe più all'asfalto che agli uomini, Monza ricevette la sua punizione: due anni senza il Gran Premio d'Italia. Nel 1932 fine del francese Etancelin. In un solo giorno del 1933, in due incidenti, Monza spazzò via dal grande automobilismo tre piloti di nome sommo, come Campari, Borzacchini e il polacco Czaykowski. I Trenta furono gli anni dei duelli Alfa contro Mercedes e Auto Union, a Nuvolari andò l'ultimo Gran Pre¬ mio prima della guerra, anno 1938. E siamo al dopoguerra, al 1948, primo Wimille il francese, dopo il Gran Premio a Milano-Fiera e a Torino-Valentino (il parco di Monza era stato usato come parcheggio per i carri armati tedeschi, e gli alberi erano finiti, e tanti, nelle stufe dei monzesi). Nel '46, per evitare che ci fossero incidenti sul circuito della Fiera di Milano, qualcuno ebbe un'idea: bastava non scrivere che si trattava del 17° Gran Premio d'Italia, in nessun documento, né ufficiale né ufficioso, nemmeno sul regolamento. Funzionò. L'autodromo frequentò nel 1955 il mistero massimo, Al- berto Ascari, scampato pochi giorni prima al mare di Montecarlo, perse il controllo di una Ferrari in prova e se ne andò a morire nel bosco, anche se non per colpa degli alberi. Non si seppe mai il perché, si parlò di un operaio che aveva attraversato di colpo la pista, provocando lo sbandamento dell'auto, e che aveva finito i suoi giorni in un manicomio, devastato dal segreto e da quella colpa. Nel 1961 la gara che diede alla Ferrari di Phil Hill, statunitense, il titolo mondiale, vide anche la fine del tedesco Von Trips, ferrarista e rivale di Hill. Con lui morirono 15 spettatori, che la monoposto andò a cogliere appoggiati a una rete, falciandoli con morbida violenza, come peli che sporgessero da una pelle. Si parlò di colpa (tamponamento) di Jim Clark, il grande campione scozzese. Dopo la morte di Von Trips e dei quindici spettatori si recitò il solito copione: bisognava abolire queste corse pericolose e inutili, rappresentazione più che di virtù sportiva di sete di sangue e di rottami. Monza sopravvisse anche a questo. Ripresero corse e tragedie, piccole e grandi. Nel 1970 l'austriaco Jochen Rindt si schiantò sulla sua Lotus alla Parabolica. Nel 1977 morì un ragazzo per il crollo di un tabellone pubblicitario. L'anno dopo fu la fine di Ronnie Peterson, campione svedese, in un incidente di partenza. Di quell'incidente venne accusato Riccardo Patrese, astro nascente: aveva superato, dissero, diverse auto uscendo sulla destra della griglia di partenza e rientrando all'improvviso per non urtare il guard rail. Aveva urtato invece Hunt e poi la Lotus di Peterson, che sul guard rail ci finì. Centinaia di riprese al rallentatore, testimonianze, ricostruzioni non chiarirono mai di chi fosse la colpa. Quel giorno Mario Andretti vinse il titolo mondiale di FI, festeggiò, firmò autografi, rilasciò interviste e poi corse all'ospedale dove il compagno di squadra Peterson stava morendo con le gambe frantumate in cento pezzi. Quando l'automobilismo era un'altra cosa, Monza era il posto dove si poteva vedere se un pilota valeva davvero i soldi che guadagnava. E lo si vedeva proprio alle curve di Lesmo, quelle che i più bravi e coraggiosi facevano senza togliere mai il piede dall'acceleratore. E di tanti incidenti mortali, nessuno è avvenuto in quelle curve dove si sono sfasciate molte vetture, ma nessun pilota ha mai riportato danni seri. Monza è andata avanti così, fra apoteosi e apocalissi, commedie e tragedie, con l'appuntamento annuale del Gran Premio d'Italia accompagnato da commozione per la devozione della gente e da esecrazione per come questa gente stuprava il parco. Con grandi e piccole storie addosso, intorno, dentro. Come quella delle mosche e del re del Belgio: Enzo Ferrari aveva smesso di presenziare alla corse quando gli era morto il figlio Dino, anno 1956, ma ancora andava alle prove di Monza. I reali belgi, Leopoldo e la sua principessa Liliana, di casa a Maranello, erano amici e perciò ospiti dei Ferrari, cioè Enzo e la moglie, che era economa, insomma avara, e che decise che avrebbe offerto loro la frutta di una sua terra. Faceva caldo, la frutta stava nel baule di una vettura, quando venne aperto volarono fuori mosche giosse come aeroplani, la signora non volle demordere, le loro maestà si beccarono quella frutta molto speciale, e con dignità rogale fecero finta di niente. Gian Paolo Ormezzano Mi Adi H M l RPcsMiad Alberto Ascari, morto a Monza Il grande Tazio Nuvolari fu uno dei massimi protagonisti nella Monza anteguerra Il conte Von Trips, un'altra vittima Mario Andretti: «Ho Monza nel cuore» Ronnie Peterson campione svedese Morì a Monza in un incidente alla partenza del Gp 1978