Al ritmo di quella notte seppellimmo il rock

Al ritmo di quella notte seppellimmo il rock Non fu l'inizio, ma la fine di un'epoca: nacque allora lo showbusiness delle case discografiche Al ritmo di quella notte seppellimmo il rock m t| EL 1969 le superstar plaA netarie erano Bob Dylan, i a Rolling Stones, i Beatles e ■ Elvis Presley. Nessuno di A_I I costoro andò a Woodstock. Quell'estate Presley si esibiva a Las Vegas; i Beatles litigavano; gli Stones s'erano organizzati il loro free show a Hyde Park. Dylan, poi, snobbò alla grande l'evento che gli avevano organizzato proprio sotto casa: all'epoca abitava da quelle parti, ma nei giorni del Festival era a cinquemila chilometri di distanza, all'isola di Wight. La «Woodstock europea» l'aveva catturato con una proposta che un vero artista rock non poteva rifiutare: 35 mila dollari d'ingaggio, più una ricca percentuale sugli incassi. A quegli argomenti, ormai, erano sensibili Dylan e colleghi. Woodstock non fu il primo grande festival (Monterey è del '67); né il più affollato (a Watkins Glen, nel '73, c'erano 600 mila persone); e il cast non superò quello dell'isola di Wight. Eppure, a Woodstock accadde qualcosa di davvero importante: il rock morì e fu sepolto. Era nato esattamente 25 anni prima, con Little Richard e Elvis Presley. Era diventato maggiorenne con i Beatles. S'era dato alla politica con i Fugs. Aveva allargato l'area della coscienza seguendo i Grateful Dead. Ma un giovanotto, a venticinque anni, ambisce a un lavoro e a un posto nella società: e il rock, con Woodstock, si sistemò. Rinunciò alla protesta e entrò a Wall Street. Le case discografiche, fino ad allora, lo avevano subito senza troppo entusiasmo. Lo giudicavano inaffidabile perché piaceva ai giovani: e i «capelloni» era- no pessimi consumatori. Di conseguenza, i musicisti erano piuttosto liberi. Non dovevano incidere dischi «vendibili». Suonino quel che gli garba, tanto a chi importa? pensavano i maghi del business. Ma in quell'estate del '69 i tempi stavano cambiando: le riviste eleganti s'innamoravano dei giovani, della moda dei giovani, della musica dei giovani, del disagio dei giovani. E i mercanti scoprivano che quei ribelli avevano in tasca ottimi dollari; tanto valeva andarseli a prendere. Il rock divenne pop, canzonetta. L'industria creò lo star-system. E lo star-system generò valanghe di denaro. E mò-. stri. A Monterey, due anni prima, gli artisti - dai Jefferson Airplane a Janis Joplin, a Jimi Hendrix - s'erano accontentati di un rimborso spese, e i duecentomila dollari d'incasso andarono in beneficenza. A Woodstock Sua Maestà Hendrix intascò 18 mila dollari, l'ex hippie Janis Joplin ne pretese 15 mila, i Creedence Clearwater Revival e la pasionaria Joan Baez si accontentarono di 10 mila. «Era l'inizio di una civiltà o il sintomo di una civiltà che muore?», scriverà qualche anno dopo Abbie Hoffman, l'irriducibile agitatore hippie. Hoffman, durante il Festival, mentre suonavano gli Who, saltò sul palco e tentò di gridare al microfono che la rivoluzione non poteva attendere, e il rock non doveva piegarsi al dio denaro. Lo cacciò a pedate il chitarrista Pete Townshend, che aveva in tasca un cachet di 6250 dollari. Con la testa piena di acidi e di conti correnti, i musicisti fecero il loro dovere. Offrirono un saggio di quel che sarebbe stato l'ex rock negli anni a venire: assoli da catena di montaggio, emozioni a comando, effettacci strappa-applausi. Musica facile. Da smerciare ai ragazzi e ai loro genitori, ai ribelli e agli integrati. La scena underground capì, e la rivista newyorkese Other Scenes scrisse: «Woodstock è la vittoria degli affaristi che traggono il loro profitto dallo sfruttamento della cultura dei giovani». Giusto, ma a chi importava? Il rock ormai era forte. Bello. E morto. Anche i semidei se ne andavano: Joplin, Hendrix, Morrison uscirono presto di scena, ubriachi di un successo crudele e non previsto. I superstiti e i replicanti si fecero furbi. Praticarono le private virtù della morigeratezza per vivere a lungo; e i pubblici vizi della trasgressione per la gioia dei mass-media. Nei 25 anni che abbiamo attraversato da quell'agosto del '69, la mummia del rock ha consacrato se stessa e il proprio nulla, imbalsamata nelle sale di registrazione e nelle cartelle stampa dell'industria discografica. Senza cambiare. Neppure i «nuovi eroi» hanno un gran che da dire. I Guns n' Roses o i Metallica suonano più forte dei Ten Years After nel '69; e cantano canzoni più oltraggiose. Ma è musica per le masse. L'aggressività fa parte del gioco, lo scandalo oggi è un accessorio irrinunciabile: come il condizionatore sulle auto. Il rock di Woodstock 2, rock degli Anni 90, non può disorientare il pubblico, pena il fallimento economico. Ci sono, è vero, i rapper, che sembrano sfregiare le convenzioni: se non fosse che anche il rap, oggi, è un manufatto industriale da riprodurre e vendere. Tutto si vende. Anche Lui, il grande assente del '69, l'inutile presente del '94: l'incartapecorito Dylan. Stavolta il cachet è adeguato. Verrà. Trascinerà sul palco il proprio stanco mito. E biascicherà Blowin' In Tìie Wind con l'odio di chi ne è stato prigioniero per l'intera esistenza. Gabriele Ferraris Dylan andò a Wìght Presley a Las Vegas gli Stones a Hyde Park Peter Gabriel Qui accanto, gli Who, star di Woodstock sotto, Janis Joplin Qui a sinistra i Guns n' Roses Sotto Bob Dylan che preferì l'isola di Wight a Woodstock

Luoghi citati: Las Vegas, Monterey, Woodstock, Wìght